Cechy ojcostwa św. Pawła Apostoła w Pierwszym Liście do Koryntian
The characteristics of the paternity of St. Paul the Apostle in the First Letter to the Corinthians
https://doi.org/10.4467/25443283SYM.19.030.11432
Abstrakt
Dla wielu wspólnot chrześcijańskich św. Paweł Apostoł był nie tylko założycielem i nauczycielem, lecz przede wszystkim ojcem. Głoszona w mocy Ducha Świętego Ewangelia sprawiła, że między nim a młodymi lokalnymi Kościołami zawiązała się prawdziwie ojcowsko-synowska relacja. Jej intensywność i charakter można zauważyć przede wszystkim w listach kierowanych przez Apostoła do wspólnoty w Koryncie, szczególnie wtedy, gdy Koryntianie oddalali się od prawdziwej wiary.
Słowa kluczowe: św. Paweł Apostoł, Pierwszy List do Koryntian, ojcostwo, theologia crucis
Abstract
For many Christian communities, St. Paul the Apostle was not only the founder and teacher but above all a father. The Gospel proclaimed in the power of the Holy Spirit, created a truly father-son relationship between him and the young local Churches. Its intensity and character can be particularly seen in the letters sent by the Apostle to the community in Corinth, especially when the Corinthians were moving away from true faith.
Keywords: St. Paul the Apostle, First Letter to the Corinthians, fatherhood, theologia crucis
Introduzione
I testi di san Paulo offrono un materiale notevole dove ritrovare il suo paterno rapporto con le Chiese da lui stesso fondate. Lo vediamo in modo particolare nella corrispondenza con la comunità di Corinto dalla quale risulta che il legame apostolico con questa Chiesa era particolarmente denso. Oltre le due lettere ai Corinzi, conservate fino ai nostri tempi, il contenuto scritturistico trasmette almeno ancora due scritti indirizzati a questa comunità. Si tratta dell’epistola menzionata da Paulo in 1 Cor 5,9, dunque scritta prima della Prima lettera ai Corinzi, e così detta „lettera scritta fra le lacrime”, della quale parla in 2 Cor 2,4. Probabilmente entrambi i testi sono andati perduti oppure, parzialmente conservati sono aggiunti alle due lettere canoniche ai Corinzi[1].
Nonostante le sopra citate annotazioni, non è soltanto la quantità dell’epistolario paolino a disposizione che ci aiuta a rispondere alle domande importanti, ma piuttosto il suo contenuto. Quali erano le occasioni, le situazioni della vita dei Corinzi che spingevano san Paulo a scrivere la parola? Come san Paulo esercita la sua paternità sulle Chiese da lui fondate? Dove vede l’origine della sua paternità apostolica ed in che cosa consiste la sua originalità di essere padre?
„Io sono di Paolo”, „Io invece sono di Apollo”
Cominciamo dal contesto della Prima lettera ai Corinzi che è stato chiaramente espresso dall’apostolo già all’inizio del suo scritto: „Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «E io di Cefa», «E io di Cristo!” (1 Cor 1,11-12)[2]. Allora, a Corinto nei riguardi del battesimo esistevano delle differenze e delle contese (σχίσματα). I singoli Corinzi, oppure gruppi di loro, sono alle dipendenze del battesimo ricevuto. In modo lapidario: dipendono da uno o dall’altro maestro della comunità, facendo nella loro vita riferimento a lui. Il pericolo di tale atteggiamento consiste soprattutto nella minaccia dell’unicità della sovranità di Cristo la quale danneggia l’unità della comunità dei credenti. Per questo motivo, nei versetti successivi, l’apostolo si riferisce a Cristo per far vedere che tutto proviene da Lui come dal centro di ogni sacramento ed ogni evangelizzazione. Attraverso tale presentazione la persona che amministra il battesimo oppure predica la Parola è sempre considerata come secondaria. Dunque, all’inizio dell’epistola emerge che la chiave della giusta comprensione del pensiero paolino, la troviamo nel principale e unico ruolo di Cristo nella vita di ogni credente[3].
La falsa comprensione di quest’evangelo, costringe l’apostolo ad esprimere ad alta voce che tutti i predicatori e gli eletti non sono altro che „(…) ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1). Questo significa nient’altro che anche Paulo, lavorando a Corinto, non faceva il suo programma bensì l’esercizio ricevuto secondo la volontà di Dio alla quale era sottomesso. Tuttavia, nel discorso posteriore vediamo che il suo ministero è unico e speciale perché a differenza degli altri, chiamati pedagoghi, lui è padre: „Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo” (1 Cor 4,14-15).
Il rapporto paterno-figliale: Paolo genera le nuove comunità ecclesiali
Paulo non vuole umiliare i Corinzi. La sua esortazione contiene l’amore paterno verso i propri figli. Lo vediamo bene perché l’accento della prima frase appena citata, cade su „figli miei carissimi”. I suoi interlocutori non sono dunque anonimi, persone estranee, bensì i figli, che appartengono alla sua famiglia. Paulo può chiamarli così perché prendeva parte nella loro formazione della fede. Lo stesso ripeteva anche alle altre Chiese, ossia, che proprio lui era il primo ad annunciarle il Cristo. In questo modo esprimeva la sua relazione personale, da padre a figli, che in qualche caso viene sottolineata dal possessivo μου e dall’aggettivo άγαπητόν, come nel riferimento a Timoteo (cfr. 1 Cor 4,17)[4].
La Prima Lettera ai Corinzi si presenta come la parola esortazione del padre ai figli. Eppure, questo compito l’apostolo non lo esercita per la prima volta in questa lettera, perché già precedentemente, lo faceva nei confronti dei cristiani di Tessalonica. Tuttavia, le situazioni ecclesiali erano molto diverse: quella dei Tessalonicesi che era più serena, esigeva da Paulo la parola della consolazione e dell'incoraggiamento, invece questa dei Corinzi, chiedeva da lui un tono di ammonimento, pur sempre paterno. E così non è la prima volta che l’ammonimento e l’amore sono presentati in Bibbia come un privilegio del padre[5].
In quale senso possiamo parlare di Paolo come il padre dei Corinzi? Per poter capire di quale generazione si tratta in quest’epistola, riprendiamo ancora una volta la frase citata sopra: „(…) sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo” (1 Cor 4,15). Il concetto della generazione non era nessuna novità, non c’era neanche riguardo per le persone con le quali non si aveva vincoli di sangue. Nella cultura greca, nella sua letteratura, era già presente la generazione didattica. Essa consisteva nel fatto di conoscere la virtù dell’educare. Filone di Alessandria speculava sulla dottrina della salvezza, capita come un rapporto fra l’anima e Dio, e dove un ruolo da compiere lo avevano anche dei mistagoghi. Tuttavia, questi esempi avevano a che fare con una certa dipendenza del discepolo dall’educatore, dal maestro oppure da qualche mediatore[6].
Invece, quando leggiamo Paolo, affermiamo subito che lui fortemente esclude tutti i sopra menzionati tipi della generazione. Nel primo capitolo scrive così: „Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare (…)” (1 Cor 1,17a). Anche poco prima: „Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri” (1 Cor 1,15a). Respinge di essere padre per motivi pedagogici e didattici perché attraverso di essi non si costituisce il rapporto padre-figlio. Paolo non si vede come gli altri maestri, neanche come il vero giudeo, che è convinto di essere educatore dei stolti perché conosce la Legge. In verità tale insegnamento non conduce al rapporto figliale col Padre perché è condizionato dalla mediazione legislativa e giuridica. Invece l’apostolo, accogliendo la fede, non è più il pedagogo perché non è sottomesso alla Legge e non vuole che l’altro lo sia, perché colui che si sottopone a qualsiasi legge oppure all’altra pedagogia umana, non è ancora figlio. Essere figlio significa stare in rapporto immediato col padre. Questo è ben altro che dipendere da un pedagogo, fosse anche il migliore[7].
Abbiamo visto come Paolo, mettendo in rilievo la profonda differenza fra l’essere padre e l’essere pedagogo, sottolinea il suo unico rapporto con la comunità di Corinto. Questo legame padre-figlio non è l’unica disuguaglianza nota da lui che lo distingue fortemente dagli altri precettori. Sulla base della diversità dei ministri nell’apostolato ha sviluppato l’idea della grazia d’essere fondatore. Nemmeno parlando chiaramente nel terzo capitolo della Prima Lettera ai Corinzi non voleva opporsi a certi carismi suscitati da Dio per la sua Chiesa, e neanche attribuire solo a sé la maturazione dei Corinzi fino alla loro pienezza, bensì voleva recuperare l’originalità del carisma ricevuto. Come vediamo sotto, rivendicandolo, apprezza anche le altre funzioni ecclesiali, tuttavia, sempre subalterne rispetto al suo ruolo di padre.
Il recupero del carisma fondante
La Chiesa a Corinto è stata paragonata da Paolo ad un campo, nel quale vengono mandati i diversi operai. Ognuno ha la propria funzione da svolgere, quella che gli è stata affidata da Dio stesso (cfr. 1 Cor 3,5b). Nel terreno c’è quello che pianta, come anche quello che innaffia: „Io ho piantato, Apollo ha irrigato (…)” (1 Cor 3,6a). Ci sono anche gli altri, ma tutti loro sono servitori di Dio per mezzo dei quali qualcuno è venuto alla fede (cfr. 1 Cor 3,5a). Paolo è conscio che l’opera nel campo non è sua bensì divina. Tuttavia, vede se stesso come quello che ha ricevuto la funzione primordiale di tutti, ossia, l’essere quel primo che getta il seme dell’vangelo e che pone il fondamento (1 Cor 3,10a). Dunque, da una parte vediamo l’uguaglianza degli operai, della loro vocazione ad evangelizzare, ma dall’altra è da notare la differenza fra le funzioni che svolgono. L’edificazione della Chiesa non sarebbe possibile se non fossero posti i fondamenti. Quest’attività primordiale porta con sé un’altra densità, un altro tipo di peso, che è determinante per tutta la costruzione successiva. La specificità dell’apostolato paolino nei confronti delle Chiese da lui fondate non può essere confusa con nessun’altra funzione ecclesiale e neanche con alcuna persona[8].
„Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto”
I Corinzi sono stati generati dall’apostolo per mezzo dell’evangelo (cfr. 1 Cor 4,15b). Apparentemente questa semplice frase non si distingue dalle altre. Però, per poter leggerla consapevolmente bisogna andare un po’ avanti, al quindicesimo capitolo della stessa lettera, dove Paolo ci rende conto che la forza di quest’espressione consiste nella trasmissione del medesimo ed antico annuncio. Lui lo ha ricevuto, e rispettando l’antica tradizione primitiva, lo ha tramandato: „Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1 Cor 15,3-5). Il contenuto, come vediamo chiaramente, è cristologico. Molto probabilmente questo brano, aggiunto più tardi da Paolo alla sua lettera, contiene l’originaria professione della fede della Chiesa di Gerusalemme. Quest’antica espressione del κήρυγμα cristiano ha per l’apostolo un valore enorme, quello salvifico, perché porta in sé la morte e la risurrezione di Cristo, cioè, la salvezza stessa. La continuità della tradizione, l’essere come un anello della catena, è per Paolo determinante[9].
L’annuncio dell’evangelo non è paragonabile a nessun’altra pedagogia umana. La buona novella supera tutti i racconti precedenti e posteriori perché porta la vita di Cristo, e se è puramente tramandata, anche la vita dell’evangelizzatore. In questo senso, la radicalità nella trasmissione della vera fede con l’impronta personale, deve essere vista come il dono della propria vita. Se è così, questo donarsi da parte dell’apostolo esigerebbe da lui le sofferenze e le lacrime perché il vero amore non è pensabile senza alcun dolore.
Le tribolazioni come segno della fedeltà
Rispondendo a questa questione richiamiamo almeno due brani come testimonianze paoline: dalla lettera ai Galati: „(…) figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4,19) e da quella ai Filippesi: „Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Entrambi affermano necessariamente le sofferenze che accompagnano la vita di Paolo nella trasmissione della medesima fede cristiana. Quell’atto del tradere coinvolge dunque non tanto il contenuto dottrinale, bensì le persone stesse: amante ed amato. L’annuncio ricevuto non come il secco insegnamento, ma come la sapienza vissuta nella propria carne che simultaneamente chiama ad accogliere quello che si dona pienamente. Il raggiungere lo scopo finale, cioè, il generare l’amato alla vita divina, significherebbe che l’evangelo ha trasmesso il valore salvifico[10].
La trasmissione della vita permette a Paolo di vedersi come il padre. Questa paternità non è pensata dall’apostolo soltanto come il suo impegnarsi nella generazione dei figli, ma anche come una risposta figliale da parte dei generati. Lo vediamo chiaramente quando gli dice: „Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori!” (1 Cor 4,16). Da queste parole risulta che il passo ulteriore della paternità apostolica di Paolo ha uno stretto legame con l’imitazione del suo essere padre da parte dei suoi figli. Come farlo? Quali aspetti della vita paolina devono essere imitati?
Per capirci meglio, bisogna andare oltre la Prima lettera ai Corinzi, ossia, all’epistola scritta ai Tessalonicesi, la quale è affermata come il primo scritto paolino alla comunità cristiana. Subito all’inizio di questo testo troviamo le parole che ci interessano: „E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione (…)” (1 Ts 1,6). La particolare importanza è collocata nella seconda parte della frase: la Parola è stata accolta fra la grande tribolazione. Paolo rende grazie a Dio per quest’accoglienza che era possibile soltanto attraverso la speranza in Cristo morto e risorto. La speranza costante dei neoconvertiti è stata rinforzata dallo Spirito Santo che ha suscitato nel cuore dei credenti la vera fede, quella che vede la loro vita nella vita di Cristo. „(…) veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,17b-18). L’essere con Lui significa essere sulla stessa scia del Servo di JHWH e ne ha fatto l’esperienza la comunità a Tessalonica. La stessa partecipazione al dolore di Cristo permette ai suoi discepoli di partecipare alla stessa gloria. Queste due realtà sono profondamente unite. Il paradosso che vediamo nella simultanea esperienza del dolore e della gioia è il vero elemento distintivo di colui che crede nel Cristo[11].
Ora vediamo, che parlando dell’imitazione, Paolo aveva in mente le diverse persecuzioni, le prigioni, i dolori e le sofferenze a causa dell’evangelo, accolti con gioia nel cuore che crede e spera. Lui stesso li ha sperimentati, avendo l’esperienza che nelle tribolazioni c’è anche la risurrezione. Proprio così i Tessalonicesi sono diventati gli imitatori sia di Paolo che del Signore[12].
Nella stessa epistola troviamo anche un altro brano che ci presenta una simile ma non identica sfumatura dell’imitazione: „Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono nella Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei (…)” (1 Ts 2,14). I Tessalonicesi sono diventati imitatori delle Chiese della Giudea, specialmente quella a Gerusalemme e nello stesso momento anche loro sono divenuti il modello per le altre comunità generate dopo di loro. Il motivo per il quale la Chiesa tessalonicese è chiamata l’imitatrice delle Chiese cristiane a Giudea non è altro che la costante fede fra le sofferenze subite da parte dei propri connazionali. Il loro atteggiamento cristiano consisteva nel fatto di affrontare coraggiosamente le lotte e le persecuzioni, dimostrando la fede attiva e piena della speranza. Seguendo i passi della vita dei fratelli cristiani a Giudea entrano sulla strada del Signore Gesù Cristo e dei profeti che subivano sul proprio corpo la continua resistenza di Israele a Dio[13].
Le vie dell’apostolo
Dopo aver esaminato due brani della Prima lettera ai Tessalonicesi, i quali ci servivano per una più profonda comprensione del tema dell’imitazione di Paolo, ritorniamo a Corinto. Dai successivi versetti della lettera esce fuori che l’imitare le vie dell’apostolo potevano farlo alcuni suoi discepoli, o meglio collaboratori, come per esempio Timoteo, nel grado radicale e fedele. Loro erano lo specchio paolino davanti alla comunità cristiana di Corinto, come giustamente ricorda l’apostolo: „Per questo appunto vi ho mandato Timoteo, mio figlio diletto e fedele nel Signore: egli vi richiamerà alla memoria le vie [όδούς] che vi ho indicato in Cristo, come insegno dappertutto in ogni Chiesa” (1 Cor 4,17).
Nei LXX la parola greca όδός, la quale viene tradotta nell’italiano come via, significa modo di vivere, comportamento dell’uomo. Dall’espressione paolina risulta che Timoteo conosce queste όδούς e ad esse è fedele. Perché nel modo radicale conservare la parola paolina è diventato il suo emissario personale. Lo vediamo come rappresentante di Paolo davanti alle Chiese di Tessalonica e di Filippi nella situazione delle grandi sfide riguardo alla perseveranza nella fede di queste comunità. Una delle più belle testimonianze dell’apostolo che contengono la raccomandazione in favore di Timoteo, la troviamo nella lettera ai Filippesi: „Ho speranza nel Signore Gesù di potervi presto inviare Timoteo, per essere anch’io confortato nel ricevere vostre notizie. Infatti, non ho nessuno d’animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre. Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella mia situazione” (Fil 2,19-23). Le tracce del ritratto di Timoteo dipinte da Paolo in questa lettera mostrano la straordinaria fiducia dell’apostolo messa nelle mani del suo collaboratore. Il carico consiste nel fatto di ricordare alle Chiese fondate da Paolo non soltanto le parole del loro fondatore ma il suo comportamento personale. Il διδάσκειν non è limitato all’insegnamento capito come il dare le lezioni, ma come l’evento che coinvolge tutta la vita[14]. Lo abbiamo visto già prima quando è stato distinto l’insegnamento paolino, vitale, paterno e globale, dall’insegnamento degli altri educatori che erano piuttosto i mediatori che i padri.
L’unica via, quella di Cristo
La sottolineatura delle vie paoline è ben vista nei nostri passi precedenti. Tuttavia, vogliamo vederle ancora nel loro stretto rapporto con l’unica via che è da seguire, quella di Cristo Gesù. In verità, nella sopra menzionata citazione (cfr. 1 Cor 4,17b) Paolo riprende alla memoria le sue vie in Cristo; ma allo stesso tempo questa complessa espressione, seguendo alcuni autori, non indica chiaramente quell’unica strada dalla quale tutti dovrebbero prendere la giusta direzione. Quale sarebbe la risposta paolina? Sembra che la sua scelta è stata determinata dal contesto storico durante il quale scriveva quest’epistola. Ci vuole ricordare che a Corinto non si trattava né della diretta imitazione di Gesù, né della fede in Lui, ma piuttosto della giusta comprensione dell’evangelo proclamato da Paolo, causato dalla polarizzazione che aveva luogo attorno ai vari predicatori o battezzatori. La falsa appartenenza è stata sostituita da quella vera, ossia, appartenenza a Cristo, che necessariamente passa attraverso la parola della croce, quella che Paolo come primo ha annunciato e fedelmente custodito, vivendo le sofferenze, le fatiche, le debolezze e persecuzioni di ogni genere[15].
Questo comportamento paolino presenta la radicale concentrazione sull’essenzialità. Scopriamo che nel suo volto sorpassa l’individualità e che lui non è più simile a se stesso ma a Cristo. É diventato tutt’accoglienza, tutto persona. Dove lui è arrivato, qualcosa è successo: le Chiese venivano fondate, oppure dove già esistevano, la fede dei credenti veniva rivitalizzata. Ha cambiato il mondo attraverso l’amore che portava nel suo corpo perché era come Cristo – il dogma vivente. L’importante non era il dogma come tale, ma l’essere fecondo, il trasmettere la vita tramite la sua stessa carne. Il dogma presenta il suo vero senso quando è incarnato. Questo per dire che la fede e la santità sono qualcosa di dinamico. La sua via è indubbiamente quella cristiana, alla quale ha dato l’originale impronta personale.
Nel testo di 1 Cor 11,1 afferma lo stesso dicendo: „Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo”. Paolo non crea il suo stato di maestro o predicatore, ma cammina secondo il modo di agire che è quello di Cristo. Lui non acquisisce il suo compito, bensì lo accoglie. Si rende conto che parlando ai Corinzi ha ancora a che fare con dei figli cristianamente immaturi e bisognosi di avere il proprio padre in Cristo che sarebbe per loro il modello della fede incarnata. Tutto questo soltanto per poter giungere allo stadio del cristiano maturo il quale può senza ostacoli entrare sulla diretta strada dell’imitazione di Cristo. Questo scopo si è espresso come un desiderio nella Chiesa di Efeso: „(…) finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13). Ci vuole dire, che parlando dell’uomo perfetto, Paolo non pretendeva di essere visto come un eroe, come quello che ha già concluso la corsa della fede. Sapeva che l’uomo perfetto è soltanto Cristo. Invece, quando parlava di se stesso non evitava di descriversi e presentarsi nella sua debolezza ed incapacità. Lo vediamo bene nella Seconda lettera ai Corinzi, quando l’apostolo fugge dalle persecuzioni e alla morte da Damasco (cfr. 2 Cor 11,30-33), oppure nella sua lettera indirizzata ai Romani, dove con sincerità parla del conflitto che osserva in sé, quello tra il bene che vuole, e il male che compie (cfr. Rm 7,7-25). Questa è la testimonianza dell’apostolo il quale si trova sulla via di Cristo ed è conscio che senza di Lui non vale niente[16].
La funzione del κήρυγμα nella paternità apostolica di san Paolo
L’essere sulla via cristiana significa per Paolo nient’altro che proclamare la sapienza divina, questa kerigmatica, contrapponendola ad un’altra sapienza, quella umano-mondana. Ci vuole chiedere: quale è il tipo di parola che l’apostolo trova scandalosa, offensiva e dannosa per la salvezza dell’uomo e quale invece è efficace e salvifica? Cosa intende Paolo quando parla della vera sapienza?
Una certa distinzione fra una l’una e l’altra sapienza la troviamo subito all’inizio della Prima lettera ai Corinzi: „(…) infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani (…). Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1,21-23.25). Paolo si contrappone ad ogni sapienza che nel modo sbagliato vuole raggiungere Dio. Questa si nota bene nell’esempio degli Ebrei che esigono da Dio i miracoli, i segni i quali giustificherebbero la messianicità di Gesù. Questa σοφία λόγου è per lui nient’altro che la gnosticizzazione della fede, l’avere i mezzi, i canoni attraverso i quali si possa controllare Dio stesso. Invece l’apostolo annuncia che l’evangelo non è nel possesso di nessun canone umano perché Dio è estremamente libero in ogni azione verso gli uomini.[17]
Alcuni cristiani di Corinto, cosiddetti pneumatici, ritenevano di essere capaci di raggiungere la salvezza senza la croce. Avendo l’altra comprensione della σοφία, affermavano la diretta partecipazione alla risurrezione ed alla gloria di Cristo, separandole dal contesto storico-salvifico. Per la prima volta nella storia ecclesiale vediamo chiaramente che la nuova visione d’essere cristiano non trova un posto per l’imitazione di Gesù nel modo concreto e storico, quello della croce. La sua signoria e la vittoria compiute sul legno sembrano perdere la loro importanza[18].
Naturalmente Paolo polemizza con tale comprensione del cristianesimo. Fortemente si oppone alla vana gloria dimostrando nella sua theologia crucis che la risurrezione viene attraverso la croce. Per l’apostolo non esiste un altro Signore che quello crocifisso. Lui è morto e risorto e la sua potenza giunge fin dove Lui è entrato come il Crocifisso. A causa di quest’ultima affermazione bisogna predicare la parola della croce, perché la croce come tale non aiuta nessuno, invece sulla parola si potrebbe fondare la fede del (non) credente. Questa è la stoltezza divina la quale è più sapiente della sapienza umana ed anche la debolezza di Dio la quale è più forte della potenza dell’uomo (cfr. 1 Cor 1,25)[19].
La croce nella teologia paolina è presentata come una chiamata, o meglio, come la vocazione di ogni cristiano. Accogliere la croce significa accogliere la potenza di Dio. Quest’accoglienza avviene non in un’improvvisa illuminazione oppure in una lunga meditazione, bensì nella risposta alla chiamata, nel decidersi di portare nella sua incapacità e fragilità la stolta parola della croce[20].
Vediamo che nelle frasi da noi analizzate non c’è un accenno esplicito alla risurrezione di Cristo nonostante fosse ripetuta parecchie volte la parola potenza di Dio (δύναμη τού Θεού), che senza nessun dubbio ha a che fare con la risurrezione. Sembra che nel contesto della Prima lettera ai Corinzi, soprattutto riguardo al brano da noi osservato (1 Cor 1,20-25), possiamo senza problema giustificare tale comportamento paolino. Non c’è bisogno di fare riferimento alla risurrezione se non si è ben capito il significato della croce. Anzi, Paolo non vuole trasformare i Corinzi nelle persone sapienti ma piuttosto in quelle credenti. Questo è il compito paterno dell’apostolo: rendere presente la salvezza dell’uomo attraverso la fede nella stolta parola della croce. Solo in tale modo spunta la potenza pneumatica di Dio[21].
Tutto ciò che finora abbiamo detto del κήρυγμα apostolico richiede ancora una parola. Dopo aver esaminato la teologia della croce, vediamo che nel grado successivo, il ministero paolino faceva appello non all’autorità apostolica, espressa nella condotta da imitare, ma appunto alla tradizione del κήρυγμα, cioè, alla croce di Cristo. Per Paolo questa e non un’altra parola è decisiva perché contiene il dono sacrificale, l’amore per gli altri, l’αγάπη, al quale ha dedicato il tredicesimo capitolo della sua Prima lettera ai Corinzi. Questo è la risposta di Paolo, l’unica che può essere il rimedio ai problemi di Corinto[22].
Conclusione
Paolo genera gli uomini alla fede in Cristo, diventando il loro padre. Il mezzo attraverso il quale li partorisce alla nuova vita è la predicazione kerigmatica nella potenza dello Spirito Santo. L’apostolo, come l’evangelizzatore e la comunità evangelizzata, entrano in tal modo nell’unico rapporto figliale-paterno che possa esser paragonabile a quello del sangue. Paolo, partorendo una volta i suoi figli alla vita per Cristo, esercita la sua paternità ogni giorno, partorendoli di nuovo nel dolore. Quando le Chiese da lui fondate si allontanano dalla vera fede e dalle esigenze evangeliche, lui le ammonisce, le esorta all’imitazione della sua stessa vita perché è fedele all’esperienza del Cristo morto e risorto. Questo è uno dei motivi per il quale respinge il modello basato sul rapporto discepolo-maestro, cioè, sull’imitazione dell’insegnante in senso etico. Paolo invece pensando all’imitazione non aveva nella sua mente soltanto la dimensione etica o morale della vita, bensì appunto tutta la vita. L’apostolo davanti alle comunità cristiane si presenta come un garante della giusta comprensione dell’evangelo sia nel momento della loro fondazione sia nel tempo posteriore, quando crescono e sono provate attraverso le diverse tribolazioni. L’essere saldo e pietrificato dal fuoco dello Spirito Santo permette all’apostolo di ammonire i cristiani alle sue vie. Si tratta non soltanto dell’essere fedele al credo tramandato da Paolo, bensì dell’esperienza della perseveranza nelle sofferenze a causa dell’evangelo espressa nella stoltezza e nella debolezza umana. Le vie paoline in Cristo significano la fedeltà alla parola della croce, cioè, al Cristo crocifisso. Questa parola ha il suo legame inscindibile con l’essere martire, il testimone di Gesù. Esce fuori chiaramente che le cosiddette vie dell’apostolo sono in verità quelle di Cristo e che Paolo mai esige l’obbedienza a se stesso oppure a una qualsiasi legge, ma alla fede in Cristo. Il suo ruolo comporta una certa autorità ma essa è esercitata come se appartenesse ad una madre che soltanto vuole bene ai suoi figli.
In questo senso Albert Vanhoye fa vedere che il ruolo dell’apostolo non può essere separato dalla persona stessa di Paolo. Non esiste divisione fra questo che lui proclama, insegna, agisce e quello che lui profondamente è: „(…) è precisamente questa stretta interdipendenza dei rapporti con Dio e dei rapporti tra l’apostolo e le sue comunità che caratterizza in maniera unica, mi sembra, la concezione paolina del ministero”[23]. Questo stretto legame era gestito da Paolo fin dalla Prima lettera ai Tessalonicesi.
Paolo è al servizio di tutte le Chiese. Questo appartiene al suo essere che è assillato dalle diverse preoccupazioni quotidiane della vita fedele delle sue comunità. Come il loro padre, ha maturato anche lui nella sua coscienza e responsabilità paterna, sempre feconda di nuova vita. Le intuizioni paoline sono totalmente nuove, non trovate sia negli ambienti ellenistici che quelli giudaici[24]. Le abbiamo approfondite nella nostra analisi letteraria dei scritti paolini e ne rimaniamo stupiti.
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[1] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo in rapporto al kerygma e alla paraklesi, Roma 1993, 69.
[2] Tutte le citazioni bibliche da CEI 2003.
[3] Cfr. H.-D. Wendland, Le lettere ai Corinti, Brescia 1976, 43. 46.
[4] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo..., op. cit., 81-82.
[5] Cfr. H.-D. Wendland, Le lettere ai Corinti, op. cit., 83-84.
[6] Cfr. G. Bertram, παιδεύω, παιδεία, παιδευτής, άπαίδευτος, παιδαγωγός, in: G. Friedrich (hrsg.), Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Band V, Stuttgart 1966, 597-603. 611-614.
[7] Cfr. ibid., 618-620.
[8] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo..., op. cit., 89-91.
[9] Cfr. ibid., 98.
[10] Cfr. ibid., 100-101. 124.
[11] Cfr. A. Vanhoye, 1 Tessalonicesi, Roma 1983, 48-49.
[12] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo..., op. cit., 128.
[13] Cfr. P. Rossano, Lettere ai Tessalonicesi, Torino 1965, 79-81.
[14] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo..., op. cit., 140.
[15] Cfr. ibid., 141.
[16] Cfr. A. Pitta, Sinossi paolina bilingue, Cinisello Balsamo (MI) 2013, 283.
[17] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo..., op. cit., 164, n. 277.
[18] Cfr. E. Käsemann, La presenza di Cristo: la croce, in: E. Käsemann, H.-G. Geyer, E. Schweizer, Cristo fra noi, Torino 1970, 6.
[19] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo..., op. cit., 168-169.
[20] Cfr. ibid., 169.
[21] Cfr. H.-D. Wendland, Le lettere ai Corinti, op. cit., 57.
[22] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo..., op. cit., 175.
[23] A. Vanhoye, Personnalité, de Paul et exégese paulinienne, in: Idem, L’apôtre Paul. Personnalité, style et conception du ministère, Leuven 1986, 14-15.
[24] Cfr. L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo..., op. cit., 187-191.