La divisione dell’istituto di vita consacrata in parti è un evento importante nella storia di ogni istituto, che spesso avviene dopo un lungo periodo di esperienza del proprio carisma, sotto la vigilanza della competente autorità della Chiesa[1]. Di solito, al momento della sua fondazione, l’istituto non è molto strutturato. Un fondatore, investito di un particolare carisma, sotto l’influsso dello Spirito Santo, raggruppa in un’unica comunità altre persone per attuare insieme quel carisma, stabilendo qualche regola di vita. Con il passare del tempo, l’estensione di un istituto è spesso una prova della validità di un carisma messo in cammino nella Chiesa. Un istituto, dopo aver raggiunto una certa estensione, sia di persone, sia di opere proprie, sente la necessità di darsi una fisionomia specifica, cercando una struttura più articolata[2]. Questa fase del cammino potrebbe essere anche più lunga e più intensa, considerando che, oltre a discernere bene il suo carisma, l’istituto deve verificare anche la propria vitalità nel suo insieme e nei particolari, compreso l’apostolato specifico lanciato dal fondatore.

Il processo di strutturazione comincia dal raggruppamento dei membri e delle opere in comunità canonicamente erette, direttamente sottoposte all’autorità del superiore generale che, oltre ad essere il supremo moderatore, è anche, per qualche tempo, l’unico superiore maggiore. Il governo dell’istituto, in questa fase, è centralizzato. I superiori locali e le case sono direttamente dipendenti dal superiore generale.

Una vera divisione avviene quando un istituto ha raggiunto un significativo numero di membri e di case, e ha i mezzi a sufficienza per svolgere l’apostolato proprio secondo il carisma tracciato dal fondatore. L’aumento delle persone e delle case, lo sviluppo territoriale, spesso l’internazionalizzazione, la distanza dalla sede del governo generale, fanno sì che l’istituto avverta il bisogno di affrontare un modello di strutturazione più rispondente alle sue esigenze. In alcuni casi interviene, a favore della divisione o costituzione di una struttura, il prestigio nazionale di un certo gruppo di case, che ha raggiunto un certo sviluppo, e desiderano avere una certa autonomia e una rappresentanza propria presso le autorità ecclesiastiche e civili[3]. Un istituto all’inizio centralizzato nell’autorità del superiore generale e del Capitolo generale cerca allora di trovare una strutturazione decentralizzata che gli permette di diffondersi conservando al meglio il proprio carisma, la propria identità e la propria unità. Una delle conseguenze della divisione è la decentralizzazione dell’autorità del superiore generale, il quale finora godeva di alcune facoltà che adesso dovranno essere condivise, applicando il principio di sussidiarietà, con i superiori delle parti costituite con l’atto della divisione. La decentralizzazione libera il superiore generale non solo da alcuni atti di governo, ma da altri doveri, spesso secondari, riguardanti la guida di certi gruppi di case, che costituivano una determinata parte dell’istituto, doveri che vengono affidati a un’autorità sul posto, munita dei necessari poteri. In più, la divisione può favorire l’unità dell’istituto, lasciando al superiore generale e al suo consiglio più tempo per animare e governare l’istituto nel suo insieme.

La divisione dell’istituto di vita consacrata in parti è prevista dal can. 581 dell’attuale Codice, che lascia ad ogni istituto l’iniziativa di fissare la propria organizzazione interna, rinviando alle Costituzioni proprie il compito di stabilire l’autorità competente a cui spetta la facoltà di dividerlo in parti, erigere nuove strutture, unirle o modificarle; invece la soppressione di esse è completata dalla norma del can. 585[4]. Questa competenza potrebbe essere riservata al Capitolo generale nel caso della prima divisione, ma non sarebbe saggio riservarla anche per successivi cambiamenti (tra cui erezione di nuove parti, modificazione delle parti già esistenti), soprattutto quando il Capitolo non si riunisce molto spesso[5]. L’autorità competente per procedere alla divisione, dare una struttura giuridica alle nuove parti, modificare quelle già esistenti, in genere, è il superiore generale con un determinato intervento del suo consiglio. Il Capitolo generale potrebbe tracciare i grandi criteri ed orientamenti da seguire nel processo della strutturazione dell’istituto, lasciando al moderatore supremo e il suo consiglio di intervenire a norma delle Costituzioni[6]. In vicinanza del Capitolo generale non è opportuno procedere a cambiamenti nelle strutture dell’istituto, che potrebbe influire sulla sua composizione[7].

La normativa del Codice sul concetto di divisione interna dell’istituto in parti (can. 581) e di un’eventuale soppressione di esse (can. 585) è molto generica e rinvia alle Costituzioni il compito di stabilire in quali parti viene suddiviso l’istituto e l’autorità a cui spetta procedere alla costituzione o alla soppressione, alle condizioni stabilite dallo stesso diritto. Essa viene completata, nel caso di istituti religiosi, dal can. 621, che tratta la divisione di questo tipo di istituto in province, e dal can. 620, che implicitamente prevede la possibilità della divisione in parti equiparate alla provincia. Interpretando insieme la normativa di questi quattro canoni, possiamo affermare che le parti in cui potrebbe essere diviso un istituto religioso sono generalmente le province e le altre strutture equiparate ad esse, determinate nelle Costituzioni.

 

1. Provincia

Il can. 621 del Codice del 1983, definendo la realtà chiamata comunemente provincia[8], adotta un linguaggio strettamente giuridico, senza stabilire i criteri pratici della divisione dell’istituto in province, determinando soltanto gli elementi fondamentali ai quali dovranno attenersi tutti gli istituti di vita consacrata: “Plurium domorum coniunctio quae sub eodem Superiore partem immediatam eiusdem instituti constituat et ab auctoritate legitima canonice erecta sit, nomine venit provinciae[9].

Il diritto proprio, specialmente le Costituzioni di ogni istituto, dovrebbe specificare l’autorità a cui spetta l’atto dell’erezione di una provincia, e potrebbe anche completare questa definizione stabilendo, in modo particolare, gli altri requisiti per la sua costituzione, cioè confermare o aumentare il numero di case rispetto a quello previsto dal diritto comune, fissare il numero di religiosi, stabilire i mezzi che essa dovrà avere per proseguire il proprio sviluppo, determinare l’ambito di autonomia di cui deve godere una provincia, ecc.[10]

Comprendendo tutti gli elementi costitutivi richiesti dal Codice e quelli che dovranno essere prescritti dal diritto proprio, si può definire la provincia, in senso ampio:

“È un organismo o persona giuridica maggiore che integra immediatamente un IVCR, formata dall’unione giuridica e familiare di varie case, canonicamente eretta mediante decreto formale dal supremo moderatore con il suo consiglio o dal Capitolo generale, al fine di agevolare il governo, la vita comunitaria e il ministero pastorale, governata da un superiore maggiore proprio, chiamato provinciale, distinto dal supremo moderatore, e dai superiori locali, e che possiede un regime e amministrazione pure propri e distinti da quelli supremi e locali”[11].

L’elemento fondamentale per la costituzione della provincia, richiesto dal can. 621, è l’unione di più case dello stesso istituto. La definizione stabilisce che la componente principale della provincia non riguarda le persone fisiche, ma anzitutto una pluralità di case, in quanto edifici materiali, abitati dai religiosi. Considerando che la provincia è una persona giuridica pubblica per il diritto stesso[12], in base al can. 115 § 2, che richiede per l’erezione di tale persona giuridica almeno tre persone, è necessario avere, per la costituzione di una provincia, almeno tre case religiose, a norma dei cann. 608-610[13]. Le singole case, prese in considerazione per la costituzione di una provincia, dovranno abitualmente essere raggruppate su un determinato territorio. Il decreto di erezione deve fissare i limiti territoriali della provincia, dentro i quali dovranno essere erette, anche nel futuro, altre case della stessa provincia. Il territorio della nazione non sempre è applicabile per determinare i confini di una provincia, considerando che possono essere erette più province nella stessa nazione, o una provincia può comprendere il territorio di più stati. Non è escluso anche che il territorio di una provincia coincida con il territorio di un’altra dello stesso istituto a motivo della diversità del rito[14].

La pluralità di case è un fattore non sufficiente per la creazione di una provincia. Tra le singole case dovrà nascere un vincolo d’unione, che ha come effetto l’origine di un nuovo soggetto giuridico chiamato provincia, come un’entità immediata dell’istituto, cioè che fa da tramite tra l’istituto come tale e le singole case. Non soltanto dovrà esistere un’unione in senso spirituale e familiare per realizzare i fini propri dell’istituto, ma anche dovrà esistere l’unità in senso giuridico, che avviene sotto il governo dello stesso superiore, chiamato superiore provinciale. Senza tale unità, le singole case non costituirebbero un’entità chiamata provincia[15].

La guida della provincia è affidata a un unico superiore, formalmente distinto dai superiori locali e dal moderatore supremo[16], che gode di una potestà ordinaria propria, secondo il diritto universale e proprio. Tale superiore, considerato dal diritto come superiore maggiore a norma del can. 620, e nel caso di un istituto clericale di diritto pontificio, è anche l’ordinario proprio ai sensi del can. 134 § 1, governa religiosamente e apostolicamente la provincia per raggiungere le finalità del proprio istituto.

Oltre agli elementi rigorosamente giuridici, indispensabili per la costituzione di una provincia, stabiliti dal can. 621, il diritto proprio di ogni istituto ha un’ampia possibilità di stabilire anche altri requisiti o condizioni per l’erezione di una provincia, che spesso riguardano tra l’altro: una certa autosufficienza di persone e di mezzi, legame dei membri con la propria provincia, previsioni di sviluppo, strutture formative[17]. Alcuni possono essere considerati come essenziali, cioè assolutamente necessari per avere una provincia; altri, invece, interpretati come un’integrazione, che rende la provincia più completa. Ogni istituto ha un ampio margine di discrezionalità per questi criteri nel diritto proprio, particolarmente nelle Costituzioni, secondo il proprio patrimonio e le proprie esigenze, salvo sempre le norme del diritto universale. Nello stabilire i vari criteri, ci vuole una certa flessibilità. I requisiti per la costituzione di una provincia di un istituto possono essere non applicabili ad un altro. Può accadere anche che all’interno dello stesso istituto sia difficile applicare gli stessi criteri a tutte le province, considerando la varietà delle caratteristiche di ognuna di esse e l’impossibilità, per alcune, di rispondere con le proprie forze e risorse a tutti i bisogni circa il personale, i mezzi di formazione e l’autosufficienza economica[18]. Sembra allo scrivente che per questi motivi il legislatore universale abbia voluto stabilire un minimum di elementi costitutivi per determinare la struttura chiamata provincia.

È opportuno soffermarsi su alcuni requisiti più importanti e comuni agli istituti di vita consacrata, che potrebbero essere fissati nel diritto proprio. L’erezione di una provincia suppone che il gruppo di case abbia un sufficiente numero di religiosi, in particolare quelli di voti perpetui, stabilito nel diritto proprio; potrebbe essere un requisito che garantisce la solidità di tale struttura. La nuova realtà ha bisogno dei religiosi non solo per portare avanti le diverse opere e attività dell’apostolato proprio, ma anche per dare vita ai diversi organismi e uffici. È necessario notare che alcuni incarichi e uffici all’interno di una provincia possono essere svolti solo dai religiosi di voti perpetui. Non sembra conveniente avviare il processo di costituzione di una provincia quando il gruppo di case ha difficoltà a mantenere un conveniente numero dei religiosi sul territorio della futura realtà, oppure se si prevede che la quantità dei religiosi possa, in futuro, decrescere. La parziale insufficienza o la mancanza dei religiosi per portare avanti il progetto provinciale, potrebbe essere risolta tramite lo spostamento volontario dei religiosi. Perciò il diritto proprio dovrà prevedere la normativa riguardante il trasferimento dei religiosi da una provincia ad un’altra.

Per costituire una provincia, il diritto proprio può richiedere anche una certa autosufficienza economica come garanzia del suo sostentamento e del suo sviluppo. Questo requisito potrebbe essere molto relativo, considerando che la ricchezza economica non è sempre uguale per tutte le parti della stesso istituto. Per alcune realtà, soprattutto in paesi di missione, non si può pretendere che una nuova provincia possa rispondere con le proprie risorse finanziarie ai bisogni della vita ordinaria e della propria crescita. È sufficiente che tali beni siano garantiti dallo stesso istituto, anche con il trasferimento di beni necessari per la vita della nuova realtà, che possiede tutte le caratteristiche per diventare provincia, oltre l’autosufficienza economica. Le risorse economiche di tale realtà possono essere garantite dalle altre province coinvolte nella sua costituzione, la quale tramite una convenzione assicurano, per un tempo determinato o indeterminato, l’invio dei beni necessari per sua vita ordinaria e straordinaria. Da notare anche che, nella maggior parte degli istituti, il diritto di possedere beni materiali da parte di case, province e altre entità dell’istituto è subordinato al bene di tutto l’istituto. In questo caso l’autonomia delle parti dell’istituto è limitata; grande invece è l’autorità del supremo moderatore che, a norma del diritto proprio, può rispondere alle necessità economiche delle varie parti, trasferendo i beni dalle entità che ne hanno a sufficienza a quelle che ne sono carenti. Prima di tutto, in ogni istituto deve esistere lo spirito di condivisione dei beni; esso permetterà che, anche senza l’intervento della competente autorità, le parti si sentano coinvolte nel rispondere alle necessità degli altri, offrendo aiuti economici concreti.

Il diritto proprio di alcuni istituti religiosi richiede che un gruppo di case dello stesso territorio, che intende essere provincia, debba avere anche strutture formative come le case di postulantato, noviziato, seminario maggiore. Anche questa condizione, però, è molto relativa. Non può essere applicata a tutte le realtà dello stesso istituto. Ci sono territori in cui una provincia è ricca di risorse personali ed economiche, l’attività è molto sviluppata e riconosciuta dalle entità ecclesiastiche e civili, ma da molti anni non possiede vocazioni autoctone, o, se si trovano, sono rare. Non dovrebbe succedere che una realtà, pur avendo tutte le altre condizioni fondamentali per essere provincia, e la sua eventuale fondazione potrebbe essere considerata uno strumento di maggiore sviluppo per la sua attività apostolica, non possa diventare provincia solo a motivo della mancanza di vocazioni e di strutture formative. Questo requisito è importante, ma dovrebbe essere visto in altro modo, cioè non solo in riferimento al possesso di strutture formative proprie, ma piuttosto nel senso che il processo di costituzione della nuova realtà assicuri che eventuali formandi riceveranno un’adeguata formazione. Dove saranno formati, non dipende solo dal possesso di strutture formative, ma anche da altre condizioni tra cui la disponibilità di un’équipe formatrice, la quantità e le prospettive vocazionali per il futuro. Quando si tratta di un territorio ricco di vocazione è ovvio che, avendo un’équipe formatrice, si cerchi di impostare strutture formative in loco; in caso contrario, è opportuno assicurare che il candidato o i candidati siano formati nelle strutture di altre province o in strutture spesso chiamate “interprovinciali”. È conveniente che già nel processo di costituzione di una provincia si elabori un programma di formazione dei futuri candidati.

Il diritto proprio di ogni istituto può richiedere altri requisiti che devono essere assicurati dal gruppo di case che pretende di essere costituito in provincia; essi possono variare secondo l’indole degli istituti, le esigenze proprie, la loro vitalità e diffusione.

Nel processo di fondazione di una provincia, quando sono già stati completati due elementi costitutivi previsti dal can. 621, cioè la constata esistenza dell’unione di più case su un determinato territorio, ed è stato designato un religioso come futuro superiore provinciale, come pure sono stati adempiuti altri requisiti previsti dal diritto proprio, il Codice prevede l’intervento della competente autorità dell’istituto, stabilita dalle Costituzioni, che procede all’erezione canonica di una provincia.  Nel caso di prima divisione dell’istituto, come abbiamo già accennato, tale facoltà potrebbe spettare al Capitolo generale; invece, quanto si tratta di successivi interventi che riguardano l’erezione di nuove province, di diverse modifiche di quelle già costituite e l’eventuale loro soppressione, le Costituzioni di solito affidano tale competenza al superiore generale. Ovviamente, tale intervento esige il consenso del consiglio generale, preceduto da una larga consultazione sia dei religiosi che faranno la parte della nuova provincia, sia dei superiori maggiori, e loro consigli, delle parti della Congregazione che sono coinvolte in qualsiasi modo nel processo di fondazione[19]. Il decreto formale di erezione, emesso per scritto, dovrà specificare con chiarezza tutti gli elementi costitutivi richiesti dal diritto[20].

L’atto di erezione canonica mette in unità, sotto il governo di un legittimo superiore, la pluralità delle case raggruppate su un determinato territorio e notifica giuridicamente l’esistenza di una provincia religiosa, alla quale viene concessa personalità giuridica dallo stesso diritto[21].

 

2. Strutture equiparate alla provincia

L’erezione delle province non è l’unica possibilità di divisione dell’istituto in parti, anche se questo è l’uso comune da maggior parte degli istituti. Il Codice prevede che un istituto può essere diviso anche in altre strutture equiparate alla provincia[22], senza, però, entrare nei dettagli e senza offrire criteri pratici per l’eventuale costituzione di tali organismi. Si presuppone che tocchi al diritto proprio la facoltà di perfezionare la definizione di queste realtà. Queste strutture possono essere variamente denominate come vice-provincia, regione, vicariato, distretto, ecc.[23] Il canone, usando solo la parola “equiparata”, pretende che questi soggetti siano giuridicamente equiparati alla provincia, cioè debbano possedere tutti gli elementi costitutivi stabiliti dal can. 621, indispensabili per l’erezione della provincia. In questo senso, anche questi organismi sono costituiti dall’unione di più case, sotto il medesimo superiore chiamato superiore maggiore, il quale gode normalmente di potestà ordinaria, propria o vicaria[24]. Invece, non si può dire che una parte dell’istituto è equiparata alla provincia quando le viene a mancare uno di questi requisiti, cioè quando il superiore di essa governa con la potestà delegata dal superiore provinciale o generale, per cui non può chiamarsi superiore maggiore, o quando la struttura viene definita come unione di persone, piuttosto che di case, o anche quando essa raggruppa meno di tre case[25]. La differenza fra le province e le parti equiparate ad essa non consiste negli elementi fondamentali, che devono essere sempre assimilati, ma consiste nel fatto che queste ultime si presentano come strutture che, per certi aspetti, sono considerate non molto sviluppate rispetto alle province, mancando loro una certa autosufficienza; ma però si incamminano verso un’organizzazione più perfetta, in modo da poter poi essere erette come province. La mancanza di personale, di strutture formative e di risorse economiche, deve essere fornita da una o più province fondatrici, o, in caso di presenze internazionali, tali risorse possono essere coordinate anche dal governo generale.

In pratica, è equiparabile a una provincia la struttura che comporta l’unione di un gruppo di case, è sottoposta al regime del governo generale come tutte le province, è affidata a un superiore che gode di potestà ordinaria propria, ma non ha tutti i poteri di un superiore provinciale, o di un superiore con potestà vicaria ordinaria con le facoltà determinate nel diritto proprio, in quanto vicario del superiore generale[26]. Potrebbe essere considerata parte equiparata alla provincia anche una struttura che normalmente fa parte di una provincia, ma abbia un’unione di più di case sotto un superiore con potestà ordinaria, anche se solo vicaria, del superiore provinciale[27]. È ovvio che queste strutture devono essere erette dalla competente autorità dell’istituto.

Il concetto di parte equiparata alla provincia, nel diritto proprio degli istituti, non è sempre preso in considerazione, ma, se ben definito e chiaro, potrebbe dare diversi vantaggi ed eliminare molti problemi che le giovani province devono affrontare subito dopo la loro erezione. Spesso gli istituti danno subito ad un gruppo di case la struttura di provincia, senza che sia stato percorso un cammino attraverso strutture inferiori ed equiparate alle province, durante il quale potrebbero già esperimentare gli elementi costitutivi di una provincia e maturare il proprio sviluppo. È opportuno, specialmente nel caso che si tratti di dare una struttura giuridica a nuove fondazioni, che un gruppo di case, prima di essere eretto in provincia, per un certo tempo percorra il cammino di una struttura equiparata a provincia. Questo potrebbe essere uno tra gli altri requisiti da mettere nel diritto proprio, come condizione per avviare la procedura per la costituzione di una provincia.

 

3. Altre strutture non equiparate a una provincia

Oltre le strutture finora descritte, il diritto proprio di ciascun istituto può prevedere altri organismi intermedi[28], che non vengono considerati parti dell’istituto quali gruppi di case non equiparate a provincia, chiamate secondo la denominazione prevista dal diritto proprio (es. delegazione, distretto, comunità territoriale). Esse, al contrario delle province e delle parti equiparate, non godono di una certa autonomia e di conseguenza non prevedono la costituzione di uffici propri con una potestà propria annessa all’ufficio, ma hanno alcune facoltà delegate che potrebbero essere in qualsiasi momento revocate[29]. In genere, prima di arrivare alla divisione in province o in parti equiparate ad essa, negli istituti viene praticata la divisione con organismi semplici che non sono qualificati come parti dell’istituto ai sensi dei canoni 581, 620 e 621. I superiori di queste strutture possono svolgere per delega alcune facoltà che dovrebbero avere in seguito veri superiori provinciali o di parti equiparate; altri religiosi possono esperimentare altre cariche che abitualmente ogni provincia o parte equiparata dovrà avere. Tale struttura potrà cominciare a costituire una sua organizzazione interna, simile a quella che di solito deve avere la provincia; gli stessi religiosi cominciano ad adattarsi alla nuova impostazione di governo.

Il fatto della divisione in strutture intermedie dimostra che la divisione dell’istituto in province è un concetto di grande importanza, da attuare attraverso un’accurata riflessione e in dialogo con le strutture e i religiosi coinvolti nel processo di strutturazione; processo potrà prevedere alcune caratteristiche della futura forma autonoma, che potrebbero essere modificate anche prima della sua trasformazione in provincia o in parte equiparata.

Nonostante la divisione dell’istituto in province, parti equiparate o non equiparate ad esse, può succedere che, per ragioni specifiche, ci siano alcune case che non sono inserite nella giurisdizione di nessuna di queste parti, ma sottoposte direttamente all’autorità del superiore generale[30]. Di solito si tratta della casa centrale dell’istituto o delle case di una nuova presenza di carattere internazionale, che ha appena cominciato la propria attività e non può, per varie ragioni, dipendere da una provincia o parte equiparata. In quest’ultimo caso si tratta di una soluzione transitoria, finché essa non raggiunge uno sviluppo tale da poter essere eretta come una vera parte dell’istituto, o almeno diventare una struttura dipendente da una provincia o da una parte equiparata. La questione delle case dipendenti dall’autorità centrale dell’istituto deve essere ben regolata dal diritto proprio.

 

Conclusione

Abbiamo trattato in medesimo articolo, in modo breve, l’argomento della divisione di un istituto di vita consacrata in parti, generalmente in province. Un istituto, prima che sia riconosciuto stabilmente e definitivamente dalla competente autorità, dovrà percorrere un cammino spesso lungo che provi la sua vitalità all’interno della Chiesa. Di solito comincia da una specie di associazione; e se nella fase del suo cammino si consolida, discerne bene il suo carisma, formula leggi fondamentali destinate a dare una fisionomia specifica e, infine, raggiunge una certa consistenza, allora può essere eretto dal vescovo diocesano come istituto di diritto diocesano. Trascorsi alcuni anni, se l’istituto si consolida ulteriormente e si espande, sia nel personale, sia nell’attività apostolica, dando prova di stabilità e di carità, arriva l’approvazione definitiva da parte della Santa Sede, su richiesta della competente autorità dello stesso istituto. Uno tra i vari segni di vitalità e di incremento dell’istituto, è la ricerca per trovare una adeguata fisionomia di governo che, inevitabilmente, porterà l’istituto a strutturarsi in gruppi di case o presenze, denominate secondo l’usanza dell’istituto (ad es. comunità territoriali, delegazioni, distretti, ecc….), il cui superiore non è un superiore maggiore, ma un delegato del superiore generale. Queste strutture, se continuano a maturare la loro vitalità e il loro sviluppo, in futuro potranno essere costituite dalla competente autorità dell’istituto come parti immediate di esso, chiamate comunemente dal Codice “provincia”; questa consiste, secondo il can. 621, nell’unione di più case (almeno tre) dello stesso istituto. Tale unione non nascerebbe se già al momento della costituzione della provincia, non si prevedesse anche l’istituzione in modo stabile dell’ufficio del superiore provinciale come autorità indispensabile e personale all’interno della provincia.

È da sottolineare che nel caso della prima divisione dell’istituto, esso si divide, di solito, in due o tre province. Il costante sviluppo di queste prime province, come pure l’espansione dell’istituto a nuovi territori di evangelizzazione, comporta il fatto della costituzione di nuove province, e divisione o altra modificazione di quelle già esistenti, secondo le esigenze di ogni istituto. Da notare anche che spesso un istituto, non solo deve affrontare la crescita e sviluppo della propria attività, ma, come accade ai nostri tempi, anche l’eventuale diminuzione numerica dei suoi membri e la mancanza di nuove energie per mancanza di nuove vocazioni, specialmente in Europa e America del Nord; e per conseguenza si richiede una ristrutturazione che può comportare la soppressione delle province esistenti.

 

 

Bibliografia

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Sacra Congregatio pro Religiosis et Institutis Saecularibus, Decreto Ad instituenda experimenta quo nonnullae facultates religiosis institutis conceduntur (04.06.1970), in: Enchiridion della vita consacrata. Dalle Decretali al rinnovamento post-conciliare (385-2000), Bologna-Milano 2001, p. 2187-2188.

Sastre Santos E., La aprobación diocesana y pontificia de un instituto de vida consagrada,  “Informationes” 25(1989), p. 55-79.

 


[1] Un istituto di vita consacrata, prima cha sia riconosciuto stabilmente e definitivamente, deve percorrere un cammino piuttosto lungo e complesso secondo la prassi prudenziale della Chiesa, sotto la competente autorità, cioè sotto la vigilanza dei vescovi diocesani e della Santa Sede. Circa i diversi cammini e interventi della competente autorità in caso di approvazione diocesana o pontificia di un istituto religioso, cf. E. Sastre Santos, La aprobación diocesana y pontificia de un instituto de vida consagrada, „Informationes” 25(1989), p. 55-79. A.Calabrese afferma che “la storia degli istituti di vita consacrata dimostra quanto sia saggia e prudente l’azione della Chiesa, poiché non pochi istituti si sono disciolti quasi sul nascere, altri sono riusciti a superare la fase preliminare della pia unione, altri ancora si sono estinti dopo qualche tempo, mostrando poca o nessuna validità”. Istituti di vita consacrata e società di vita apostolica, Città del Vaticano 1997, p. 27.

[2] Cf. V. De Paolis, La vita consacrata nella chiesa, Bologna 1992, p. 70.

[3] Cf. E. Gambari, I religiosi nel Codice. Commento ai singoli canoni, Milano 1986, p. 152

[4] Il can. 494 § 1 del Codice del 1917 riservava alla Santa Sede la competenza di erigere, modificare e sopprimere le province di ogni istituto di diritto pontificio. Invece per quelli di diritto diocesano, le Costituzioni proprie dovevano precisare le norme al riguardo. Questa normativa del Codice anteriore ha subito una nuova disposizione della Sacra Congregazione dei Religiosi e degli Istituti secolari, che concesse ad ogni istituto religioso di diritto pontificio la facoltà di erigere, unire, modificare, sopprimere le province. Solo nel caso della prima divisione dell’istituto in province o per totale loro soppressione esisteva l’obbligo di ricorrere alla Santa Sede. Cf. Sacra Congregazione dei Religiosi e degli Istituti Secolari, Decreto Ad instituenda experimenta quo nonnullae facultates religiosis institutis conceduntur, 4 giugno 1970, in: Enchiridion della vita consacrata. Dalle Decretali al rinnovamento post-conciliare (385-2000), Bologna-Milano 2001, p. 2187-2188.

[5] Cf. J. Beyer, Il diritto di vita consacrata, Milano, 1989, p. 77.

[6] Cf. D. Andrés, Le forme di vita consacrata. Commentario teologico-giuridico al Codice di Diritto Canonico, Roma 2005, p. 45.

[7] Cf. G. Escudero, Il nuovo diritto dei religiosi, 1971, p. 32.

[8] La dottrina canonica non esclude la possibilità di altri nomi, cioè regione, distretto, ispettoria, ecc…., ma la realtà giuridica in ogni caso è quella descritta dal can. 621. Cf. E. Gambari, I religiosi nel Codice …, op. cit., p. 151; A. Montan, Gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, in: AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. II: Il popolo di Dio. Stati e funzioni del popolo di Dio. Chiesa particolare e universale. La funzione di insegnare, Roma 1990, p. 270.

[9] Il can. 488,6° del Codice del 1917 definiva la provincia in tal modo: “Provinciae, plurium religiosarum domorum inter se coniunctio sub eodem Superiore, partem eiusdem religionis constituens.”

[10] Cf. E. Gambari, Vita religiosa oggi secondo il Concilio e il nuovo diritto canonico, Roma 1985, p. 543.

[11] D. Andrés, Le forme di vita consacrata …, op. cit., p. 159; Cf. idem, Can. 621, in: AA.VV., Comentario exegético al Código del Derecho Canónico, vol. II/2, Pamplona 2002, p. 1557.

[12] Cf. can. 634 § 1.

[13] Cf. D. Andrés, Le forme di vita consacrata …, op. cit., p. 159; V. De Paolis, La vita consacrata nella Chiesa …, op. cit., p. 201; E. Gambari, I religiosi nel Codice …, op. cit., p. 151; Montan A., Gli istituti di vita consacrata …, op. cit., p. 270.

[14] Ci sono istituti religiosi che abbracciano il rito latino e uno dei riti della chiesa orientale.

[15] Cf. V. De Paolis, La vita consacrata nella Chiesa …, op. cit., p. 201.

[16] Il diritto universale non fissa alcuna incompatibilità di queste cariche, ma lo può fissare il diritto proprio. Cf. D. Andrés, Le forme di vita consacrata …, op. cit., p. 159.

[17] Cf. E. Gambari, Vita religiosa oggi …, op. cit., p. 543; V. De Paolis, La vita consacrata nella Chiesa …, op. cit., p. 200.

[18] Cf. J. Beyer, Il diritto della vita consacrata …, op. cit., p. 77.

[19] Cf. G. Escudero, Il nuovo diritto dei religiosi …, op. cit., p. 32.

[20] Cf. D. Andrés, Le forme di vita consacrata …, op. cit., p. 160.

[21] Cf. V. De Paolis, La vita consacrata nella Chiesa …, op. cit., p. 202.

[22] Le parti equiparate alla provincia sono previste dal can. 620, nell’inciso “vel partem eidem aequiparatam”.

[23] Cf. E. Gambari, I religiosi nel Codice …, op. cit., p. 153.

[24] Cf. D. Andrés, Le forme di vita consacrata …, op. cit., p. 161; V. De Paolis, La vita consacrata nella Chiesa …, op. cit., p. 202-203; A. Calabrese, Istituti di vita consacrata …, op. cit., p. 83.

[25] Cf. D. Andrés, Le forme di vita consacrata …, op. cit., p. 161.

[26] Cf. E. Gambari, I religiosi nel Codice …, op. cit., p. 153-154; A. Montan, Gli istituti di vita consacrata …, op. cit., p. 271.

[27] Cf. E. Gambari, I religiosi nel Codice …, op. cit., p. 154.

[28] Cf. V. De Paolis, La vita consacrata nella Chiesa …, op. cit., p. 200.

[29] Cf. E. Gambari, I religiosi nel Codice …, op. cit., p. 154; V. De Paolis, La vita consacrata nella Chiesa …, op. cit., p. 71.

[30] Cf. E. Gambari, I religiosi nel Codice …, op. cit., p. 154.