1. Presupposti generali di comprensione

Incominciamo stabilendo il quadro teologico sul quale sviluppare questo nostro approccio al tema[1]. Vorremmo dire qualcosa sulla comprensione del sacerdozio in padre Léon Dehon (1843-1925, fondatore dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù) senza perdere come riferimento la „chiamata” che lui ha ricevuto e che la sua biografia ci mostra. Questo perché la chiamata è „la quintessenza dello stato e della vita cristiana”[2]. Lo stare in Dio porta con sé la rivelazione ad ogni cristiano del „dove” Lui lo vuole[3]. È il fondamento dello stato e la vita completa di una persona[4].

Identificare un „dove” è possibile perché è stato tra noi il Verbo divino[5], permettendoci un dialogo autentico[6]. L’unità, che consiste ed esiste nello Spirito Santo[7] (dunque, solo accessibile nell’amore[8]) è la caratterizzazione di tutto quanto ha a che vedere con una chiamata[9]. Il vissuto dell’amore poi rende la chiamata sempre „attuale”, entra sempre di nuovo, costantemente, nella precisione di uno spazio e di un tempo, in modo che l’unica chiamata „può di nuovo dispiegarsi in una serie di atti storici che in connessione tra di loro rappresentano la storia di una vocazione”[10].

Questi sono riferimenti molto importanti per il nostro tentativo di capire il vissuto (la dinamica spirituale, non tecnicamente teologica) di Dehon nella prospettiva del tema della sua comprensione del sacerdozio. Non possiamo dunque fare un approccio inappropriato: non siamo soltanto davanti ad un pensiero teorico, ma ad un’opera divina ancora in evoluzione o dispiegamento. Capire bene il concetto di sacerdozio in Dehon ci porterà a capire meglio quanto oggi viene chiamato carisma dehoniano. Così, studiare il sacerdozio in Dehon è entrare nella dinamicità di una chiamata che in lui si è materializzata prima nella ordinazione al sacerdozio secolare e poi nella consacrazione religiosa in un modo peculiare (carisma) e dunque, in un certo senso, nuovo e diverso (fondatore).

Un altro tratto del quadro di comprensione parte dal fatto che anche se sacerdozio e consacrazione sono due forme di chiamata diverse[11], dobbiamo essere prudenti e non cadere nell’errore di pensare che stiano „bruscamente l’una di fronte all’altra”[12]. Neanche pensare a un sacerdozio messo accanto ad una consacrazione religiosa. Anzi, scrive Balthasar, „una chiamata può prender le mosse dal sacerdozio per condurre il chiamato ad una sempre maggiore sequela personale, ad un adempimento dei consigli spirituale o attuale, e poiché d’altra parte la chiamata può condurre primariamente allo stato dei consigli, per far sbocciare da questo il sacerdozio come un frutto interiore che all’inizio rimaneva ancora nascosto”[13]. In questo testo riconosciamo sia il percorso di Dehon, sia quello della grande maggioranza dei dehoniani d’oggi. Dunque, studiare il sacerdozio in Dehon è studiare: l’unità della sua chiamata, l’unità della nostra impostazione carismatica ed ecclesiale, e la coerente unità di risposta da parte nostra[14].

 

 

2. Quale formazione sacerdotale ricevette Dehon?

Prima di arrivare a quel 19 dicembre 1868 nella Basilica papale di San Giovanni in Laterano in cui Léon Dehon diventa presbitero della Chiesa cattolica crediamo sia opportuno evocare il suo percorso formativo.

Il Seminario francese di Santa Chiara[15] era fondazione e opera propria degli Spiritani con lo scopo di formare un clero francese secondo un doppio principio: l’elezione della propria vocazione e il principio identitario di un modello di pietà; entrambi equilibrati poi con l’importanza data alle scienze religiose, in concreto quelle insegnate al Collegio romano dei Gesuiti. Lo scopo dunque era di fornire una formazione spirituale e scientifica nel clima di un cattolicesimo romano che doveva condurre verso una spiritualità di prossimità, di vicinanza sia a Dio che al suo Popolo. Volevano formare un „spirituel française à Rome” attraverso il venire impregnato dalla storia, grazie a itinerari culturali nella città di Roma, dalla liturgia e dai riti romani; generare così un universo mentale capace di comprendere e spiegare la sana dottrina al di là di ogni considerazione di politica nazionale, nella prospettiva di universalità propria del termine „cattolicesimo”. Come nota aneddotica, ma di rilievo per i dehoniani, possiamo segnalare come, al centro del cortile del seminario, si trovava una statua del Sacro Cuore, testimonianza della associazione quotidiana che questa devozione aveva con la vita spirituale dei seminaristi. Infine, si può definire il Santa Chiara come scuola di universalità, di unità e di romanità.

La formazione teologica Dehon la riceve dunque nel Collegio romano dei Gesuiti[16]. Parecchie erano le grandi sfide che questa scuola voleva affrontare: fermare gli errori della modernità e la scristianizzazione della società, contribuire alla preparazione culturale e intellettuale del clero e alla formazione religiosa del popolo cristiano. Tutte queste sfide lasciano la loro orma nell’animo di Dehon. A livello di scuola teologica, il Collegio romano offriva una teologia che voleva ricuperare la Grande Tradizione Scolastica dei secoli XIII e XVI dalla mano dei gesuiti Giovanni Perrone[17] e Johann Baptist Franzelin[18], ai quali possiamo aggiungere Matthias Joseph Scheeben[19].

In un’altra sponda di pensiero, arrivano anche i frutti del tempo del Romanticismo che, a Tubinga e Oxford, aprono lo spazio per il sentimento (di fronte alla ragione) e la temporalità, la storia (di fronte all’astratto e atemporale)[20].

 

3. L’approccio condiviso

Abbiamo oggi la fortuna di contare su un accesso praticamente totale e soprattutto veloce al patrimonio scritto che ci ha lasciato p. Dehon. Ciò che è una fortuna, allo stesso tempo è una sfida: il materiale è amplissimo, di qualità diversa, scritto in date diverse, in contesti diversi, ecc. Niente dunque di nuovo per gli abituati a lavorare su Dehon, come non è nuovo che ogni ricercatore prenda, o scarti, quello che considera adatto alla visione che ha preso dell’argomento. Mi sono permesso di scartare lo studio delle fonti già analizzate[21] da p. Joseph Famerée SCJ nel suo lavoro del 2009[22], dando lo spazio ad altra documentazione[23].

Comunque, l’approccio che considero fondamentale e sul quale poggia la seguente riflessione, si riassume in queste parole di Dehon: „Jésus est prêtre […], le prêtre de Dieu”[24]. A mio avviso, questa è senz’altro la migliore sintesi di ciò che Dehon capisce come sacerdozio: dire sacerdozio è dire Gesù. P. Famerée ribadisce l’opinione comune fra gli studiosi dehoniani: il concetto del sacerdozio in Dehon è stato elaborato con gli strumenti forniti dall’École française de spiritualité[25], che gli fa capire il sacerdozio come stato di vita cristiana nella imitazione di Gesù[26]. Il grande esponente dell’École française, il cardinale de Bérulle, sviluppa un concetto ontologico, il „religieux de Dieu”, in cui essere prete significa essere „più vicino” a Gesù; è strada di propria santificazione che si concretizza quotidianamente nella (personale) celebrazione e adorazione dell’Eucaristia, „presenza permanente” di Colui che è risorto e operante oggi. L’eucaristia poi realizza ed esprime l’oblazione, l’amore di Cristo redentore e rivelatore di Dio, che è Agape (ecco una traccia di collegamento con la devozione al Sacro Cuore che Dehon sviluppa[27]).

 

4. L’esperienza spirituale cristiana secondo Dehon. Ipotesi

Ci sembra interessante ora riprendere tutto, partendo dal presupposto appena presentato e da questa domanda: possiamo individuare in Dehon una comprensione dell’esperienza generale cristiana, specialmente di quella spirituale?

Se leggiamo ad esempio Vie Intérieure: Exercices Spirituels[28], Dehon indica Gesù Cristo come fonte di ogni vita soprannaturale: lui è mediatore, autore e ministro della santificazione attraverso la grazia che opera in ognuno che si apre a lui. Il „modus operandi” persegue uno scopo: ristabilire l’intimità dell’essere umano con Dio. Di Gesù, Dehon evidenzia la sua proclamazione come „Vita”. Di qua fa sorgere una sua riflessione su aspetti piuttosto esteriori, spaziali si se vuole. Il concetto di „dimora” (in quanto „abitabilità” fisica) è importante per Dehon; lui tenta di superare i limiti posti dal tempo cercando la continuità della presenza di Gesù Vita attraverso l’identificazione di uno spazio. Così, la corporeità fisica di Gesù (finita nel tempo umano) la vede continuata nel „pane eucaristico”. Questa „spazializzazione” attraverso una „fisicità” è molto importante per Dehon perché la condizione di possibilità per il funzionamento della principale „legge” spirituale: l’”unione”. Per lui, l’unione dev’essere tangibile, verificabile, „vivibile”. La „presenza eucaristica” è così lo spazio concreto e raggiungibile dal di fuori (esteriorità) che, oggi, garantisce (con certa „verificabilità”) una accessibilità all’esperienza spirituale (interiorità).

In questo gioco di esteriorità che si apre all’interiorità, Dehon segnala: „L’Esprit de Jésus est la forme de notre vie spirituelle”[29]. La forma attua attraverso la grazia[30], che è il modo di presenza e azione dello Spirito nei fedeli: „grazia abituale” e „grazie attuali”[31]. Per Dehon c’è un dono, una grazia speciale, che è quello dell’unione. Qualificata di superiore, è necessaria per alcuni gruppi di fedeli (sacerdoti, religiosi, anime dedite al Sacro Cuore). Dunque, Gesù Vita continua la forma cristologica dell’incarnazione e la raggiungibilità attraverso (specialmente) la „presenza eucaristica”, per stabilire poi le condizioni di possibilità che la forma pneumatologica abilita nel fedele per arrivare all’unione di quello che il peccato ha separato: Dio e l’essere umano.

Vita e intimità, pane e presenza eucaristiche, grazia e unione emergono in Dehon come parole chiavi per raggiungere l’esperienza spirituale che offre la fede cristiana.

 

5. Comprensione del sacerdozio in Dehon. Ipotesi

A partire da questa esperienza generale cristiana, Dehon assume la visione tomistico-tridentina del sacerdozio. Questa visione vincola l’ordine sacerdotale totalmente al sacramento dell’Eucaristia, per Dehon, forma esteriore/oggettiva di presenza del Figlio di Dio nell’oggi del credente[32]. Questo principio porta il nostro autore alla contemplazione-riflessione sullo spazio-tempo in cui ha inizio questa accessibilità al mistero di Vita; cioè, è nel Cenacolo del Giovedì santo dove si trova il vincolo totale tra Eucaristia e Sacerdozio. In Couronnes d’Amour[33], Dehon riflette sull’agire concreto di Gesù in questo momento vedendo come cerca di assicurare (perpetuare) la sua presenza efficace attraverso due istituzioni: il sacerdozio e l’eucaristia. L’eucaristia assicura la „présence physique” (esteriore). Il sacerdozio assicura la „présence morale” (interiore). Così, in questa ottica, il sacerdozio esiste anzitutto per confezionare e rivelare la presenza eucaristica. Le due modalità di presenza si articolano nel sistema eucaristia-sacerdozio-chiesa. Al di là della consistenza di questo sistema, il nucleo della proposta va messo nel rapporto interiore o diretto che in questa luce si stabilisce tra Cristo e il sacerdote.

Inevitabilmente arriva la domanda: Dehon, riflettendo sul sacerdozio, come caratterizza Gesù Cristo? Profeta, Mediatore, Pastore, Pontefice, Maestro, Fratello, Taumaturgo, Avvocato… sono aspetti che lo definiscono, ma non completamente. Quello decisivo, ovviamente Prete o Sacerdote, è frutto della contemplazione di una rivelazione dell’essere di Dio e cioè che lo „stato” del Figlio diviene atto incessante e infinito di „amore”[34].

Per Dehon questa è una rivelazione che lo porta a una convinzione: „c’est son amour qui l’inspire et le guide dans son immolation pour la gloire de son Père et pour notre salut”[35]. Dehon si chiede: „Comment ce Coeur nous a-t-il aimés? En s’immolant pour nous (…) le Coeur qui nous a témoigné son amour en se sacrifiant pour nous sur l’autel de la croix”[36]. Cioè, la forma, la modalità ineludibile, veritiera, reale dell’amore è l’”immolazione pro vobis”. L’amore è riconoscibile, è tale, è credibile ed efficace soltanto nella radicale consegna di sé che Gesù ci lasciò (e che è „memoria” e „presenza” nell’eucaristia).

Un Dio che è amore, e amore consegnato totalmente, trova nel sacerdozio antico con al centro il sacrificio (prima della nuova legge) lo spazio per una prima espressione di se stesso. In questo modo, „c’est l’amour du Cœur de Jésus pour son Père et pour nous qui inspire et dirige son oblation et son immolation”[37]. Il Cuore di Gesù risponde dunque di fatto a tutti gli scopi del sacrificio: (a) espiare i peccati e riparare la gloria del Padre, (b) salvare le nostre anime; e aggiunge ora un elemento differenziatore: (c) guadagnare i nostri cuori con l’intensità del suo amore[38].

Dopo questa descrizione lo sguardo di Dehon cerca di riconoscere il „come” di questo insieme di missione e azione di Gesù. Questo „come” lui lo qualifica come „gratuità”. Cristo ha portato avanti „le plus grand fait de l’histoire”, cioè „l’immolation de l’Agneau divin”[39], in un modo disinteressato, gratuito, puro. Conseguentemente, se „le sacerdoce est la plus haute mission”[40], la missione dei preti è ri-consegnare al Signore Gesù un amore disinteressato, gratuito e puro[41]. Il centro dell’esperienza spirituale fornita dall’unione, acquisisce la colorazione dell’”amicizia”: „Les rapports intimes et journaliers du Sauveur avec ses prêtres, particulièrement au saint autel, exigent cette amitié. Le prêtre représente Jésus et continue sa mission, il doit y avoir entre eux cette communauté de vues et de sentiments qui est le propre de l’amitié”[42]. Dehon trasferisce tutto all’ambito dell’elezione personale e del conseguente rapporto elevato a livello di „intimità”: „Le prêtre est l’ami personnel et intime de Jésus Christ”[43]. Più precisamente ancora: „L’intimité de Jésus avec ses apôtres était le signe de l’amitié”[44]. L’intimità si declina in termini di „familiarità”[45]. Dehon va oltre, e attribuisce una finalità a questa modalità di rapporto. Fa dire a Gesù: „Je suis tout amour; mes ministres doivent être des ministres d’amour et ils ne pourront l’être qu’autant qu’ils seront enflammés par mon amour”[46]. Però senza mai dimenticare la modalità di questo amore; cioè un sacerdote assume la vocazione e missione di formare in sé „l’esprit d’amour et d’immolation par lequel le Prêtre se consacre uniquement à l’amour de ce divin Cœur, en lui immolant son cœur et en lui consacrant ses actions et ses œuvres sacerdotales avec tous leurs fruits, et leurs mérites”[47]. Gesù Cristo è contemplato come Prete e Vittima, come consegna radicale di se stesso, non come funzionario del Padre che esegue ordini o piani non assunti come propri. Il sacerdote alter Christus non fa le veci, non rappresenta ma è Gesù, cioè continua ontologicamente la presenza e missione di Gesù.

La contemplazione del Giovedì Santo fa ribadire a Dehon l’elemento istitutivo del sacerdozio: „le pouvoir de consacrer son corps et son sang”[48]. È così che il sacerdozio coopera nel processo della salvezza: con il potere di celebrare il sacrificio eucaristico si continua la „abitabilità” di Cristo nell’oggi il quale, nella sua offerta quotidiana al Padre, continua la sua vita di vittima ed elargisce i conseguenti meriti per gli uomini[49]. Qui trova anche posto il potere pastorale (insegnamento-sacramenti-governo). Così si capisce anche l’esistenza della Chiesa gerarchicamente costituita[50] per continuare la missione di Gesù: cioè, la Redenzione fatta con la consegna di sé fino alla morte e una morte di croce.

Infine, scrive Dehon: „une grande mission ne va pas sans une grande sainteté”[51]. La santità indica la vicinanza integrale a Cristo, a Dio. La santità è la méta dell’unione, dell’amicizia e della familiarità. Importante sarà dunque la dignità per esercitare efficacemente il grande potere di consacrare: „Quel sort enviable d’être les amis de Jésus, ses intimes, les ministres de ses œuvres et même ses compagnons de labeur et d’expiation sous la croix!”[52].

 

6. Limiti e potenzialità: la teologia valuta la visione dehoniana

Da buon discepolo dell’École Française, Dehon stabilisce lo „stato” interiore del Signore: Gesù è Sacerdote perché tutta la sua vita è stata (ed è) sacrificio d’amore e fonte del sacrificio redentore nell’amore. La ricorrenza del termine „amore” diventa simbolo nel „Cuore”. La ricorrenza del termine „sacrificio” evoca l’essenza dell’agire „sacerdotale”. Così, „le Cœur sacerdotal de Jésus est l’organe d’un culte parfait d’amour et de réparation envers son Père”[53]. Il „Cuore sacerdotale di Gesù” diventa dunque figura o icona concreta di questa prospettiva.

I testi dehoniani offrono una visione del sacerdozio lontana (senza negarla) dalla funzionalità ecclesiale che, almeno nella visione di Sant’Agostino, caratterizza la ragion d’essere del ministero ordinato (anzi Dehon mette in guardia contro questa visione nelle sue critiche pastorali, formative, politiche, etiche, economiche[54]). Per sostenere la propria comprensione, di stampo più dionisiano (dello Pseudo-Dioniso), Dehon porta avanti una lettura „interpretativa”, sia della Scrittura, della tradizione teologica e della prassi ecclesiale, molto libera e (mi azzarderei a dire) volutamente anacronistica[55].

Ribadendo che Dehon mai ha avuto intenzione di fare teologia accademica, è anche vero che usa „interpretativamente” la teologia e dunque dobbiamo usare questa per indicare limiti e anche potenzialità nella sua visione[56].

 

1. Riguardo al concetto di sacerdozio, forse non poteva essere in modo diverso, ma Dehon restringe l’uso del termine sacerdozio ai ministri ordinati. Alla luce di oggi, il nostro autore dimentica o non si accorge che, nel Nuovo testamento, (a) l’unico che viene chiamato Sacerdote è Cristo; e (b) che quando si parla di sacerdozio, si riferisce al sacerdozio comune o regale di tutti i fedeli[57]. Al punto (a) possiamo dire che il sacrificio determina tutta la comprensione della fede cristiana in Dehon: „Prêtre et victime, tout chrétien doit l’être dans une certaine mesure”[58]. Dunque, per i preti in un modo determinante: „tout prêtre de la nouvelle loi doit avoir un cœur de prêtre et de victime comme Jésus”[59]. In queste espressioni troviamo forse una coscienza più specifica e anche una „via di salvezza” oggi della dinamica dehoniana. Lo riprenderemo in seguito, ma ci possiamo chiedere: tutto il linguaggio sacerdotale usato da Dehon ci rinvia in fondo ad una contemplazione peculiare del mistero totale del Signore Gesù che segnala come centrale quello che oggi chiamiamo sacerdozio comune? Di conseguenza anche, il punto (b) obbliga d’ora in poi tutti noi a distinguere tra „teologia sacerdotale” (con soltanto Gesù e i battezzati e battezzate come suo soggetto) e „teologia ministeriale” (con vescovi e presbiteri – tra altri ministeri – come soggetti).

 

2. Riguardo all’eucaristia, Dehon la capisce in un senso fisicista e continuativo, che insiste soltanto sul suo versante di sacrificio redentore, dimenticando il tutto del mistero pasquale e rischiando anche di non chiudere nel tempo il sacrificio in croce del Signore, oscurando il suo „una volta per tutte”. In particolare può essere aggravato con una concezione pratica o spirituale dell’adorazione eucaristica che dia staticità e fisicità alla presenza sacramentale, dimenticando che si tratta di un incontro nello Spirito con il Risorto, attraverso il pane sacramentalmente già trasformato nella „actio” liturgica[60]. Ci sembra che questi siano rischi molto presenti ancora oggi, dove il concorrere di teologia-liturgia-devotio continua a lasciare la questione molto aperta. Sarebbe argomento di un’apposita ricerca. Diciamo semplicemente che paradossalmente Dehon rischia di allontanarsi dal fatto che l’eucaristia è un sacramento col presentarla come un accesso immediato e fisico; questo oscura il fatto che il sacramento è „memoria” del mistero e l’accessibilità che offre è più vicina ad una „presenza elusiva”[61].

 

3. Riguardo al vincolo di sacerdozio ed eucaristia, il rischio in Dehon (come in quasi tutti del suo tempo) è di sottolineare ciò che meno definisce il ministero: la presidenza dei sacramenti (dunque dell’eucaristia), mettendo in ombra quello che invece lo è: l’annuncio della Parola e il governo della comunità cristiana. Anche a livello più pratico c’è il rischio, ogni volta più redivivo, di ridurre la celebrazione eucaristica a „privata edificazione spirituale”, „atto di pietà” o „spazio dominativo del prete”.

Tentiamo ora di allargare la riflessione su questi tre ambiti critici o limitanti. Come detto, Dehon dipende dagli sviluppi di quanto de Bérulle aveva già enunciato: identificare il sacerdozio con l’Eucaristia e l’Incarnazione di Cristo. Questa identificazione situa ecclesiologicamente il sacerdozio e le sue tre caratteristiche di autorità, santità, scienza[62]. Ricordavamo anche che fu il concilio di Trento a suscitare l’interpretazione del sacramento dell’ordine come „sacerdozio” unito all’eucaristia[63]. Da de Bérulle viene la comprensione dell’eucaristia come estensione dell’incarnazione, sotto l’angolatura della presenza reale[64]. In una impostazione cristocentrica-teocentrica, così come Dio Padre genera e dona al mondo il Figlio (mediante la maternità di Maria, Verbo Incarnato), il sacerdozio è vincolato all’eucaristia in quanto serve da mediazione all’estensione dell’incarnazione. Si giustifica così l’affermazione che il prete riveste o entra nella persona di Cristo (alter Christus).

Il limite pare facilmente identificabile. Se tutto quanto detto fosse strettamente così, il sacerdozio prenderebbe in esclusiva per sé tutta la ricchezza della santità della Chiesa. Questo atteggiamento persiste quando si punta su una „mediazione gerarchica sacerdotale”, riducendo ai soli ministri ordinati la funzione di trasmettere la santità come illuminazione e come grazia a fedeli e non fedeli. Questo schema mette il sacerdote ordinato non più „tra” i cristiani, ma „sopra” e „prima” dei cristiani, come mediatore-intermediario tra Dio e il popolo[65]. La mediazione diventa così ciò che definisce il ministero (com’è corretto), ma non attraverso il rapporto pastorale complessivo (tria munera) quanto attraverso la sola celebrazione dei sacramenti (cosa che non è completamente corretta). Così la separazione-sacralizzazione, e le sue conseguenze ecclesiologiche, viene motivata dal rapporto con la celebrazione e l’altare.

Dehon mostra questa posizione quando parla di popolo scelto, anime elette, ecc.; una „separazione sacra” che non è capita soltanto come rituale-cultuale, ma come ontologica. Nelle spiritualità sacerdotali francesi del periodo di Dehon, al „sacerdozio cristiano” (ridotto agli ordinati) viene data l’impronta di „religiosa”, cioè della vita religiosa, perché è la vita religiosa, in quanto „martirio bianco”, a dare fondamento in generale al sacrificio, e quindi al sacerdozio. In questa linea, Dehon sottolinea nel sacerdozio un suo movimento ascendente del quale mette in risalto (a) l’adorazione di Dio e (b) l’immolazione ed oblazione.

Da un lato, il gesto del sacrificio, inteso come connessione di sacrificio-immolazione-oblazione, apriva la strada a fare una lettura più radicale dell’idea dell’impronta „religiosa” del sacerdote, riconoscendo che il sacramento dell’ordine, fornendo l’impronta „teocentrica” al sacerdote, si doveva considerare „più eccellente” che la professione dei consigli (in questo modo, si faceva diventare il prete più religioso dei religiosi)[66]. Dall’altro lato, l’adorazione di Dio (che forse nei dehoniani fa pensare subito alla concrezione devota che è l’adorazione eucaristica, ma non ci riferiamo ad essa) viene considerata in quanto atteggiamento o stato permanente. Questa considerazione permette di superare la radicale e divisoria separazione „sacralizzante” che porta con sé l’impronta teocentrica appena accennata. Cioè, perché l’adorazione di Dio è il riconoscimento semplice che la creatura liberamente fa della trascendenza divina, questa non può essere esclusivamente „sacerdotale”, separata, sacrale. A questa luce possiamo pensare che il concetto di sacerdozio che Dehon condivide è certamente e decisamente „teocentrico”, ma non „sacrale”. Cioè, una suora, un fratello, un laico, una laica sono anche adoratori di Dio. Il che vuol dire che il fondamento abilitante per questa adorazione è semplicemente cristico, ontologicamente cristico; dunque, battesimale; dunque universale (nel campo della Chiesa formata dai battezzati e dalle battezzate)[67].

Il rischio della „separazione sacra” di questa impostazione trovava un’altra correzione nella così chiamata „virtù di religione”[68]. Appartenente alla virtù morale della giustizia, „che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto”, la giustizia verso Dio è chiamata „virtù di religione” e va alla pari con la giustizia verso gli uomini che „dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l’armonia che promuove l’equità nei confronti delle persone e del bene comune”. Nell’anno 1893, quando si compivano i 25 anni di ordinazione di Dehon, scrisse che in quella giornata fu „pénétré de la grandeur et de la sainteté du sacrifice de l’autel”[69], ma anche ebbe inizio una storia personale di servizi protesi allo stabilimento di relazioni e di lotta per la giustizia[70]. L’impegno sociale („sociétale” nella necessaria sfumatura che p. Yves Ledure offre) viene dettato dal tempo attuale, dall’”oggi”. Questo impegno non è né un optional, né una „moda”, né una personale sensibilità, né il proprium di un Ottocento ormai chiuso nel tempo… l’oggi attiva questa dimensione connaturale del sacerdozio e delle sue virtualità. Dobbiamo dunque completare il concetto di sacerdozio in Dehon con quanto esprime in questo testo di un suo articolo sul clero italiano: „guidé par l’Évangile et au nom même du Christ, qu’il aille au peuple, qu’il l’organise, lui porte secours, le défende, le sauve. Le prêtre doit être l’homme de son temps: toujours appuyé sur l’Église, colonne et fondement de la vérité, il doit parler le langage de son temps et ne pas négliger l’étude de ces graves problèmes qui agitent sa nation”[71].

Così si tentava di completare un quadro in modo predominante sacrale. Completato, ma non superato. E qui deve continuare la nostra riflessione, perché oggi quanto è „salvabile” dell’impostazione, della comprensione dehoniana del sacerdozio appena abbozzata?

 

7. Conseguenze per l’identità dehoniana

I limiti teologici non ci devono far perdere le intuizioni forti che vengono dalla presentazione e analisi fatte. Come processo carismatico e percorso spirituale, l’eredità dehoniana ha una comprensibilità e una ricchezza riconosciuta e viva nell’odierna congregazione. Questa, oggi, sottolinea in fedeltà creativa termini come „disponibilità” e „oblazione”[72]. Non si deve perdere la proposta di un „ministero dell’abitabilità” di Dio e in Dio („ospitalità” la chiamano altri autori come Christoph Theobald o Marcello Neri), o la missione di essere memoria (di)mostrativa dell’essere di Dio Agape qui e ora.

Alla luce di quanto detto, sembra che si possano accettare queste affermazioni di p. Famerée: „le sacerdoce semble bien être le projet de vie qui unifie tout le parcours du P. Dehon”[73]; „Il se définit moins par son ministère ou sa fonction que par sa relation mystique d’union au Christ”[74]; „cette vie d’union que s’engage Dehon, en quête d’une intimité et d’une identité toujours plus profondes avec son Seigneur. Une telle dynamique le conduira, en 1877, à la vie religieuse” [75]; infine, „Sacerdoce et vie religieuse sont l’envers et l’endroit d’une même exigence: l’imitation du Christ ou la sainteté intérieure” [76].

Come servono i concetti teologico-spirituali di Dehon all’adeguata comprensione della vocazione dei dehoniani d’oggi e la loro chiamata unificante ad appartenere ad „un Istituto religioso apostolico che viva della sua [di Dehon] ispirazione evangelica”[77]? Non si può negare né dimenticare che lo scopo di Dehon fu fondare una congregazione di sacerdoti, di preti, di ministri ordinati che assumevano un focus spirituale molto concreto, diventando così capaci di sottolineare la risposta adeguata ai loro tempi, ai bisogni della Chiesa e della società, incarnare la risposta giusta per quel momento. Ma i limiti o le comprensioni incomplete del ministero ordinato, che abbiamo trovato in Dehon, arrivano fino ad oggi? Non c’è stata un’evoluzione e una purificazione, opera del carisma vivo e operante ancor oggi, che sviluppa in fedeltà quanto ricevuto dal fondatore e che lui ha espresso con il linguaggio, i „materiali” e le capacità del suo momento? L’opera di rinnovamento del Capitolo Speciale (per i dehoniani, la seconda sessione del XV Capitolo generale, ma in un certo senso anche il XVI), non sono stati soddisfacenti o non indicano dove è rimasta tutta questa eredità del fondatore? Sempre p. Famerée attribuisce nel suo articolo a Dehon una „confusion regrettable” fra „prêtre” e „religieux”[78]. I dehoniani oggi, continuano in questa confusione di o tra identità religiosa e identità sacerdotale? Si è generata una sintesi unica, propria, fondamento di uno stile di vita frutto di un processo carismatico? Detta più colloquialmente, hanno risposta a domande come: cosa sono? sacerdoti che fanno professione religiosa, o religiosi che (alcuni) vengono ordinati presbiteri (e anche vescovi)? Cosa sono: „sacerdoti dehoniani” o „dehoniani sacerdoti” (chi lo è)?

Se continuiamo la lettura di p. Famerée, alla fine, lui fa una scelta e capisce così la vocazione dehoniana: (a) al centro si deve mettere il sacerdozio ministeriale il quale viene arricchito (b) dalla „spiritualité de la vie religieuse” e (c) dalla „coloration spirituelle de sa congrégation”[79]. Ma subito ci possiamo chiedere: quale è (anzi esiste?) „la” spiritualità della vita religiosa? Non si riduce così la forma di vita cristiana chiamata „vita religiosa” (consacrata) a una delle sue parti? Lo stesso per la espressione „coloration spirituelle” applicata al carisma proprio. Il carisma dehoniano, aggiunge soltanto uno „specifico” nell’ambito spirituale? Non incide sulla comunione e sulla missione? L’uso del termine „coloration” non fa diventare aggiuntivo ciò che è sostanziale?

A Yogyakarta, nel Seminario Teologico Carisma e devozioni: verso una identità dehoniana inculturata, ci è stato ricordato che „un carisma, infatti, non è la somma dei fatti e delle opere, né si cristallizza nelle vicende e in una ermeneutica data in modo definitivo dei testi di fondazione. Il carisma è un dinamismo profondo, un impulso misterioso che bisogna continuare a incarnare, che si comunica come fuoco e come philum genetico. Perché sia fecondo e vero non può bastare una semplice manutenzione, non basta l’evocazione della memoria, ci vuole l’arte carismatica di esplorare e l’impegno a inculturarsi. […] Quando tutta l’enfasi è sul fondatore, come „padrone” del carisma, la teologia non è sana. Lo Spirito Santo non abbandona a se stessi i carismi, ma ne è il donatore e l’interprete, e continuamente opera perché i nostri schemi di interpretazione non lo rinchiudano in formule sacralizzate. È ‘un’esperienza dello Spirito, trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il corpo di Cristo in perenne crescita’ (Mutuae Relationes 11)”[80].

Al di là dei limiti di linguaggio e di quello che si pretende dire, quello che esiste è un dono vivo dello Spirito alla Chiesa attraverso il carisma di Dehon. Questo dono ha avviato un „processo carismatico” che si dispiega in un ordine generativo delle realtà. Perché la vocazione è unica, non è possibile pensarla come il miscuglio di due cose diverse (sacerdotale e religiosa) che si mettono insieme. Neppure il fatto che il percorso di arrivo al compimento di tale vocazione abbia preso strade e tempi diversi (in Dehon, al sacerdozio si addice la vita religiosa; ai dehoniani d’oggi, in maggioranza, nella vita religiosa viene concessa l’ordinazione ministeriale) non toglie nulla al fatto che la vocazione, la chiamata, sia una[81].

In questo senso, l’attuale Regola di Vita, nella cosiddetta parte ispirante (CST 1-85), usa 7 volte la parola „sacerdote”: 6 volte come parte del nome della Congregazione e 1 volta in CST 31, quando parlando della missione dice che „in vista di questo ministero[82], Padre Dehon dà una grande importanza alla formazione dei sacerdoti e dei religiosi”. Soltanto questo, come mai! Ecco l’esempio di come la concezione e il linguaggio sacerdotale di Dehon ha spinto la Congregazione molto oltre un semplice essere „preti con voti”. Anzi, questo lavoro riscatta in Dehon tutta una peculiare contemplazione del Signore Gesù, che diventa sufficientemente attraente per voler „fare, dell’unione a Cristo nel suo amore per il Padre e per gli uomini, il principio e il centro della nostra vita”[83], per così „scoprire sempre di più la Persona di Cristo e il mistero del suo Cuore e annunciare il suo amore che sorpassa ogni conoscenza”[84]. I dehoniani offrono, ricordano, alla Chiesa tutta questa contemplazione del Signore attraverso l’unione „in maniera esplicita [del]la [loro] vita religiosa e apostolica all’oblazione riparatrice di Cristo al Padre per gli uomini”[85] come il loro servizio a tutto il Popolo di Dio e al mondo.

A modo di conclusione si può affermare che, dopo la revisione teologica, la visione del sacerdozio del fondatore indica ulteriormente come centrale quello che oggi viene chiamato sacerdozio comune o regale, cioè che Cristo è sacerdote e continua ad esserlo in tutti i battezzati, che sono il vero e unico spazio della santità (Ecclesiam sanctam, Popolo Santo di Dio…). Questa santità ecclesiale chiama i dehoniani a vivere „tutti […] uguali nella stessa professione di vita religiosa, senz’altra distinzione che quella dei ministeri”[86]. Il sacerdozio comune dei fedeli riscopre il „culto spirituale” che è la Chiesa stessa e che diventa anche la sua missione. Il sacerdozio del Nuovo Testamento si esprime in modo concreto nella „carità” [87]; i dehoniani contemplano ed esprimono questa carità nella dedicazione, per amore di Cristo e dei fratelli, al sorgere e al formarsi di questo „culto spirituale” che è la Chiesa; Chiesa che nasce dalla parola e dall’eucaristia[88]; alcuni chiamati al servizio ministeriale e altri cooperando in questo stesso servizio[89].

Si potrebbe, anzi si dovrebbe, andare molto oltre. Discutere questi argomenti è di vitale importanza per l’impostazione della pastorale vocazionale, della formazione iniziale e permanente, per la quotidiana vita religiosa e apostolica, sia nel versante di vita personale che comunitaria, per le grande scelte che dappertutto la congregazione è chiamata a fare. Non si possono accettare, sostenere o difendere stili di vita che sottolineano, secondo l’opportunità, l’essere religioso o l’essere presbitero[90]. Gli effetti di questa affermazione arrivano anche alla disponibilità economica e professionale, alla coscienza con cui si prende (e si lascia) un ministero, di come viene costituito il patrimonio materiale di una entità dell’istituto, di come si fanno le scelte di vita, con quale mentalità e con quale scopo si chiedono gli aiuti intracongregazionali, il modo in cui si partecipa ad un Capitolo generale, quanti problemi emergono nel concreto vissuto della povertà, dell’obbedienza e della castità nel suo versante di coinvolgimento in vita comunitaria, e un lungo eccetera che è dove si gioca veramente l’identità dehoniana.

 

8. Dunque, sacerdoti dehoniani o dehoniani sacerdoti?

Questo nostro tema ci mette davanti a „fatti di vita” (siano fatti dello Spirito, siano delle persone) che non sono di facile spiegazione[91]. Anzi, sembra che abbia una forza determinante il punto di vista dal quale si parte per la riflessione sul tema diventando la logica di tutto il discorso. Molti autori consultati riconoscono che quello del religioso presbitero è uno stato peculiare nella Chiesa. Il claretiano Fernando Prado[92] descrive il fatto così: „Dos vocaciones que confluyen en un mismo sujeto creando una realidad nueva”[93]. Si riconosce dunque la diversità degli stati: religioso (caratterizzato dal „carisma”) e ministeriale (caratterizzato dal „dono”), chiamandoli „vocazioni”; poi sono messi dentro una dinamica di „confluenza”[94], in cui „el don no anula el carisma”[95]. Anche se nella collocazione sembra che l’autore conferisce una preminenza o precedenza alla vocazione e al sacramento dell’Ordine, l’accento lo mette sul soggetto che unifica queste due vocazioni. Come egli stesso afferma, le due preoccupazioni sono descrivere una „identità” e poi la conseguente „appartenenza”. Forse il problema è nell’uso (comprensione) dei termini, ma continuiamo a dire che la vocazione è una, che così viene presentata al soggetto, il quale dà una sua risposta al tutto presentato alla sua libera scelta per il servizio della Chiesa.

Siamo dunque più vicini a quanto l’istruzione Potissimum institutionis[96] indica al n. 108. Anzitutto, partendo dalla tensione che si vede tra testi citati del magistero (in cui si parla di „sacerdote religioso”) e la stesura dell’istruzione (che parla di „religioso-sacerdote o diacono” e „religiosi candidati al ministero presbiterale e diaconale”), alla fine stabilisce che „il religioso-sacerdote o diacono giungerà ad armonizzare convenientemente queste due dimensioni della sua unica vocazione”. Dunque, un’unica vocazione con due dimensioni fornisce l’identità e articola la pluralità di prassi, presenza e appartenenza.

Non esiste il religioso in astratto. Nel caso che ci interessa, i Sacerdoti del Sacro Cuore esistono essendo uomini, con il carisma dehoniano, come laici o ministri ordinati.

La sfida è di percepire come certamente le due realtà generano un modo peculiare che potenziano il servizio alla Chiesa, cioè una forma esistenziale propria di realizzare l’unica esistenza cristiana. L’analisi empirica della realtà della Chiesa ci fa vedere che questo modo peculiare di esistenza cristiana rappresenta l’unione di un „principio alfa” (il ministero ordinato è un carisma speciale, appartenente alla struttura della Chiesa, che vincola la comunità con la sua radice apostolica) e di un „principio omega” (la dimensione escatologica nella quale alla vita religiosa viene riconosciuto un accento speciale) che situa questa forma esistenziale nell’avanguardia della Chiesa con un forte senso profetico, che denuncia la Chiesa pellegrina quando crede di essere arrivata a compimento (principio omega malinteso) e annuncia il bisogno di camminare quando l’archeologismo ferma la marcia (principio alfa malinteso)[97].

Dunque, la forma di vita „religioso sacerdote” è una vocazione in se stessa che, proveniente dai plurali e diversi vissuti carismatici concreti (dehoniani sacerdoti, gesuiti sacerdoti, claretiani sacerdoti…) offre una propria configurazione generale che lo stesso numero 108 dell’istruzione ci offre: il religioso-presbitero beve alle sorgenti dell’istituto per la vita spirituale e deve evidenziare il dono che l’istituto rappresenta per la Chiesa; conduce la sua vita in maniera conforme alla regola di vita religiosa che si è impegnato ad osservare; vive in comunità; il ministero apostolico o pastorale che svolgerà lo farà per il fatto che appartiene alla natura della sua vita religiosa; sarà disponibile e mobile per il servizio della Chiesa universale, se i superiori lo inviano.

Il punto di unione risiede nella radice cristologica. Cioè la radice è il vissuto sacerdotale di Gesù stesso caratterizzato dall’obbedienza al Padre e dalla solidarietà con l’umanità. Il sacerdozio comune, regale, battesimale… che significa „il vero culto sacerdotale, che tutti devono rendere a Dio e vivere in autenticità quotidiana, non può esprimersi fuori dalla vita, ma nelle esigenze concrete dell’esistenza, come l’offerta sacerdotale di Cristo”[98]. In questa peculiare forma di vita dei religiosi sacerdoti, il ministero ordinato si amalgama con la incisiva funzione sacerdotale che la vita religiosa rappresenta: la relazione radicale a Cristo e al suo agire; la centralità della vita in comunione fraterna, la presenza nella storia perché proclami i grandi valori del Regno[99].

Non deve esserci confusione, né malintesi. È una identità che si profila e si evidenzia con il passo del tempo grazie alla sua unità. La nostra scelta è per il „dehoniani sacerdoti”.

Diamo così il „potere articolante” alla professione dei consigli evangelici, che insieme alle Costituzioni, sono i legami che danno in aeternum lo status di „Religioso” nella Chiesa. Questo status viene contratto con la professione perpetua e non viene sciolto né dalla elezione, né dalla ordinazione ministeriale, né dalla designazione ad un qualsiasi ufficio ecclesiastico. Di fatto, la professione dei voti consacra totalmente e definitivamente la persona a Dio con una finalità di santità. L’ordinazione in tutti i suoi gradi, anche se imprime carattere, è finalizzata in noi ad un compito ecclesiale da svolgere entro la dimensione missionaria/apostolica data dal carisma[100].

 

9. Concludendo

È nei dettagli della quotidianità dove si giocano tante cose. Se può servire come parola quasi ultima, in questi piccoli dettagli si evidenzia quanto si sia ancora su quel „di più” dell’epoca di Dehon, o si sia nel „così” che chiede tutta la visione di Chiesa che regge (che tenta di reggere) oggi e che si trova nella Lumen Gentium.

Aggiungiamo queste parole: „la molteplicità degli elementi in cui la chiamata di Dio può mostrarsi e di fatto quasi sempre si mostra, può anche condurre ad occasionali conflitti di competenza e controversie. Quale obbligo ha la precedenza? In quale delle due vie apparentemente necessarie sta la volontà di Dio? La perplessità si dissolve solo se colui che cerca, nella fede e nella preghiera, passando attraverso tutto ciò che sta in primo piano, tende verso il raggiungimento della percezione della sommessa voce della volontà paterna [di Dio]”[101]. Infine, l’unità della chiamata richiede sempre l’unità della risposta: „l’unità della chiamata è l’unica cosa che può dare unità ultima a una vita umana”[102].

Dehon cercava l’unità. È riuscito ad offrire un’unità di senso, di vita. Una purificazione sempre è necessaria per prendere la forza nascosta in questo dono che si apre strada anche su visioni teologiche superate o incomplete. Rimane l’invito a quella ricerca personale, amichevole, intima; riappare con forza la proposta di un ministero di presenza, di continuità trasformativa secondo le leggi (amore e riconciliazione) del Regno di Dio della realtà tutta. Sembra che a questo serve un carisma che trova il centro nel sacerdozio di Cristo (sacerdote, vittima e altare di un culto spirituale sempre nuovo nell’amore) e si sviluppa in ministeri diversi che servono ad assicurare, qui e oggi, una presenza di Gesù, nel Popolo santo di Dio, per la Gloria e la gioia del Padre[103].

 

Sigle

Opere di Léon Dehon:

ACD: Inediti su „Activité du père Dehon” 

ASC: L’Année avec le Sacré-Cœur de Jésus

CAM: Couronnes d’Amour

CON: Inediti su „Conférences”

CSJ: Cœur Sacerdotal de Jésus

DIS: Inediti su „Discours”

DSP: Directoire Spirituel

MSC: Mois du Sacré-Cœur de Jésus

NTD: Inediti su „Notes diverses”

QSS: Inediti su „Questions sociales”

REV: Revues

RSO: La rénovation sociale chrétienne

VAM: De la Vie d’Amour envers le Sacré-Cœur de Jésus

VES: Vie Intérieure: Exercices Spirituels

 

Altre sigle:

CCC: Catechismo della Chiesa Cattolica

CST: Costituzioni: Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù, La Nostra Regola di vita, Milano 2009.

 

Bibliografia

Balthasar H. U. von, Gli stati di vita del cristiano, Milano 1984.

Belda Plans J., Historia de la teología, Madrid 2010.

Concilio Vaticano II, Costituitone dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, Roma 1964.

Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Direttive sulla formazione negli istituti religiosi Potissimum institutioni, Roma 1990.

Famerée J., Sacerdoce et eucharistie chez Léon Dehon: Une réinterprétation théologique, „La Vie spirituelle”, mai 2009, 89 année, nº 782, t. 163, 227-249.

Fernández G., Los religiosos candidatos a los ministerios presbiteral y diaconal, „Commentarium pro Religiosis et Missionaris” 71 (1990), 533-552.

Le Bot L. M., Étude canonique sur l’appartenance du Pontife romain á un institut religieux, „Revue de Droit canonique” 2(65) (2015), 367-376.

Levillain Ph., Boutry Ph., Fradet Y.-M. (dir.), 150 ans au cœur de Rome: Le Séminaire français 1853-2003, Paris 2004.

Martinelli P., Vocazione e forme della vita cristiana: riflessioni sistematiche, Bologna 2018.

Moioli G., Scritti sul prete, Milano 1990.

Piano L., La posizione dei religiosi nella Chiesa negli interventi dei Padri conciliari sullo schema De Ecclesia al Concilio Vaticano II, „Seminarium” 4 (1997), 807-831.

Prado Ayuso F., El ministerio ordenado de los religiosos y el magisterio postconciliar, „Claretianum ITVC”, 4(53) (2013), 291-318.

Spezzati N., Elementi di sintesi per una visione, in: Seminario Teologico SCJ, Carisma e devozioni: verso una identità dehoniana inculturata, Roma 2017, „Studia Dehoniana” 63, 157-170.

Spezzati N., Unità duale o dialettica permanente?, „Sequela Christi” 1 (2010), 9-12.

Zas Friz de Col R., Il presbitero religioso nella Chiesa, Bologna 2010.

 


[1] Scelgo quello di H. U. von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano, Milano 1984.

[2] Ibid., 339.

[3] „La chiamata è una chiamata trinitaria, che non solo chiama l’eletto, ma chiama anche (altri) a partire dalla sua chiamata”. Ibid., 357.

[4] „In questa triplice graduazione della chiamata allo stato nella Chiesa, allo stato intraecclesiale e infine ad una concreta posizione all’interno di questo stato di vita scelto si mostra qualcosa come una analogia della chiamata, che chiamando dapprima il cristiano a uscire dal mondo fa di lui un cristiano, poi in una chiamata singolare, seconda e posteriore, lo trasferisce in un determinato stato di vita, per donargli infine durevolmente col concreto qui ed ora della chiamata una vita cristiana in questo stato”. Ibid., 340. Cfr. anche p. 339.

[5] Cfr. ibid., 344.

[6] Il frutto di questo dialogo è sempre peculiare: „L’unica preoccupazione per l’uomo è quella di scegliere quello che Dio ha scelto per lui. E che egli sia messo in grado di poter riconoscere la scelta divina e in quanto conosciuta ratificarla”; questo perché „niente rende l’uomo più autonomo che la missione divina, che egli assume su di sé in libera obbedienza e con piena responsabilità”. Ibid., 349-350.

[7] „Ogni missione, ogni insediamento in uno stato e una forma di vita ecclesiale prenderà le mosse d’ora in avanti da questo stesso Spirito (1 Cor 12,4-11; 2 Tm 1,6-7)”. Ibid., 354.

[8] „[Ogni chiamata di Dio] è un’azione dell’amore e ha per fine la santità, che è sempre una forma dell’amore. Così la chiamata riceve la sua forma dalle leggi dell’amore ed è guidata da esse. Essa non può affatto venir compresa senza la speciale maniera di pensare tipica dell’amore”. Ibid., 373.

[9] „Scelta, chiamata e missione da parte del Padre, obbedienza e assunzione dell’incaro da parte del Figlio sono in Dio un avvenimento eterno, che parte dall’unità del loro conoscere e volere, si compie all’interno di questa unità e in questa unità fa ritorno. (…) A questo avvenimento prende parte chiunque nel mondo viene eletto, chiamato e inviato da Dio in Cristo”. Ibid., 351.

[10] Ibid., 351.

[11] Da un lato, „Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza”. Concilio Vaticano II, Costituitone dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, Roma 1964 (LG), 18. Mentre dall’altro „[la] santità della Chiesa costantemente si manifesta e si deve manifestare nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli; si esprime in varie forme in ciascuno di quelli che tendono alla carità perfetta nella linea propria di vita ed edificano gli altri; e in un modo tutto suo proprio si manifesta nella pratica dei consigli che si sogliono chiamare evangelici”. LG 39.

[12] H. U. von Balthasar, Gli stati di vita…, op. cit., 378.

[13] Ibid., 378-379.

[14] Una testimonianza possibile di questa coscienza di unità di chiamata in Dehon può essere il documento „Mon ministère” ([vedere nota 23] NTD 9130016).

[15] Cfr. Ph. Levillain, Ph. Boutry, Y.-M. Fradet (dir.), 150 ans au coeur de Rome: Le Séminaire français 1853-2003, Paris 2004, 538.

[16] J. Belda Plans, Historia de la teología, Madrid 2010, 229-241.

[17] G. Perrone (1794-1876) contribuì ad organizzare uno stile di fare teologia e diede personalità propria alla scuola: scolastico-deduttiva nel metodo, positivista per la cura della informazione storica.

[18] J. B. Franzelin (1816-1886) partecipa in modo decisivo nella preparazione e sviluppo del Concilio Vaticano I (1869-1870).

[19] J. Scheeben (1835-1888) forse il grande teologo del momento, per lui la teologia è una riflessione sui misteri cristiani che si orienta a manifestare la connessione che esiste tra di essi. Così tenta di superare ogni separazione tra teologia dogmatico-speculativa e teologia mistica.

[20] Le due tendenze (centrate una sulla storicità e l’altra sulla immutabilità della rivelazione) si incontreranno, molto più tardi, in una comprensione della verità rivelata sin dal principio e contenuta nei dogmi, i quali si sviluppano nel tempo, secondo le vicende in modo che si produce una conoscenza più estesa e profonda della verità rivelata alla Chiesa sin dal principio.

[21] Ci riferiamo specialmente a NHV e NQT.

[22] J. Famerée, Sacerdoce et eucharistie chez Léon Dehon: Une réinterprétation théologique, „La Vie spirituelle”, mai 2009, 89 année, nº 782, t. 163, 227-249.

[23] Abbiamo usato l’edizione più sicura e aggiornata dell’opera dehoniana: www.dehondocs.org. Ecco l’elenco di documenti organizzati secondo il sito:

Libri:

[L’Année avec le Sacré-Cœur de Jésus] ASC: 2/27; 2/321; 3/480-488; 4/35-44; 4/206-216; 6/116-122; 6/202-228; 6/220-227; 7/117-126; 8/105-114; 9/136-143; 9/151-157; 9/158-165; 9/182-188; 9/263-271; 11/82-89 | [Couronnes d’Amour] CAM: 3/48-59; 3/151-164 | [Mois du Sacré-Cœur de Jésus] MSC 320-321 | [Cœur Sacerdotal de Jésus] CSJ: 1-316 | [De la Vie d’Amour envers le Sacré-Cœur de Jésus] VAM: 213-228 | [Vie Intérieure : Exercices Spirituels] VES: 12-16.

Riviste:

[Revues] REV 8031078 | REV 8031083 | REV 8031092 | REV 8031095.

Inediti:

[Activité du père Dehon] ACD 9020034 | [Conférences] CON 9040011 | [Discours] DIS 9050101 | [Notes diverses] NTD 9130007 | NTD 9130016 | [Questions sociales] QSS 9160025.

[24] CAM 3/151.

[25] Cfr. CSJ 7.

[26] J. Famerée, Sacerdoce et eucharistie..., op. cit., 231. Ci ricorda l’origine tridentino della unione sacerdozio-eucaristia che incentra il ministero sul potere di consacrare e di assolvere i peccati. Possiamo segnalare come esempio del senso del „potere” penitenziale il fatto di unirsi a Cristo nella missione di togliere il peccato del mondo (cfr. ASC 2/480-488). Siamo davanti ad un riduzionismo che fa di „una” teologia del ministero „la” (unica) teologia.

[27] Cfr. J. Famerée, Sacerdoce et eucharistie..., op. cit., 237.

[28] Cfr. VES 12-16.

[29] VES 13.

[30] Offriamo la definizione condivisa tra l’ieri di Dehon e il nostro oggi: „La grazia è una partecipazione alla vita di Dio; ci introduce nell’intimità della vita trinitaria”. CCC 1997.

[31] „La grazia santificante è un dono abituale, una disposizione stabile e soprannaturale che perfeziona l’anima stessa per renderla capace di vivere con Dio, di agire per amor suo. Si distingueranno la grazia abituale, disposizione permanente a vivere e ad agire secondo la chiamata divina, e le grazie attuali che designano gli interventi divini sia all’inizio della conversione, sia nel corso dell’opera di santificazione”. CCC 2000.

[32] Cfr. DSP 28-35.

[33] Cfr. CAM 3/158-164.

[34] Cfr. CSJ 16, citando Giraud.

[35] CAM 3/151.

[36] CSJ 9.

[37] ASC 6/221.

[38] Cfr. ASC 6/225.

[39] ASC 9/143.

[40] Ibid.

[41] Cfr. VAM 213-215.

[42] VAM 222.

[43] ASC 8/105.

[44] VAM 223.

[45] Cfr. ASC 3/483.

[46] VAM 224.

[47] CAM 3/56.

[48] ASC 9/158.

[49] Cfr. ASC 9/158-165. Dehon insiste nella continuità tra incarnazione-croce-eucaristia, come fasi di un unico atto. Di fatto, medita sulla contemporaneità della „messe au ciel” („messe qu’il [Jésus Christ] célébrait lui même”) e la „messe sur la terre” (caratterizzata, seguendo Santa Geltrude, perché „au même instant Notre Seigneur accomplissait dans le ciel ce qu’il opérait dans l’Église par le ministère des prêtres”. Cfr. ASC 11/82-89).

[50] Dehon rinvia la sua fondazione alle apparizioni del Risorto sul monte in Mc 16,15-16.20.

[51] ASC 9/263.

[52] ASC 9/156.

[53] ASC 6/223.

[54] Cfr. ASC 4/206-209.

[55] Affermazione più concreta per CSJ.

[56] Ci aiutano a farlo il citato lavoro di J. Famerée, Sacerdoce et eucharistie..., op. cit.; G. Moioli, Scritti sul prete, Milano 1990.

[57] Cfr. J. Famerée, Sacerdoce et eucharistie..., op. cit., 240-243.

[58] CAM 3/156.

[59] Ibid.

[60] Cfr. J. Famerée, Sacerdoce et eucharistie..., op. cit., 247-249.

[61] Nel senso che il sacramento non riesce a dare una risposta piena, soddisfacente, evitando che la realtà evocata ci sfugga.

[62] Lo possiamo applicare a questa famosa frase di Dehon: „Ils reviennent tous à trois chefs: l’étude, l’action et la prière. II nous faut des docteurs, des apôtres et des saints”. RSO 8/50.

[63] Questo significa che la lettura del „sacerdozio” cristiano dipende dalla lettura adeguata dell’eucaristia. Cfr. G. Moioli, Scritti sul prete, op. cit., 59.

[64] Questa presenza viene divisa poi in „sostanza”: il Verbo Incarnato; e in „economia”: i „misteri” e gli „stati” di Cristo. Cfr. ibid., 59.

[65] Cfr. ibid., 58-60. 202.

[66] Un dibattito si apre qui. Perché, in base al suo essere sacramentale, il ministero dovrebbe essere „di più” della vita religiosa (che non ha una fonte sacramentale diretta se non il battesimo) quando il canone 10 della sessione XXIV del concilio di Trento stabilisce la dottrina tradizionale che la vita religiosa è superiore alla vita coniugale, cioè la vita cristiana che nasce dal sacramento del matrimonio? Cfr. L. Piano, La posizione dei religiosi nella Chiesa negli interventi dei Padri conciliari sullo schema De Ecclesia al Concilio Vaticano II, „Seminarium” 4 (1997), 807-831.

[67] Cfr. G. Moioli, Scritti sul prete, op. cit., 203-204.

[68] Cfr. CCC 1807 anche per le citazioni esplicative immediate.

[69] DIS 9050101/1.

[70] Cfr. DIS 9050101/1.

[71] REV 8031095/9. In questo trova anche la funzione di essere pegno d’unità, dando anima alle opere materiali, mettendosi dunque alla „tête du mouvement social chrétien”. Cfr. REV 8031095/7.

[72] In questo senso, la Regola di vita SCJ ne è la garanzia. Si veda specialmente CST 6 e 17.

[73] J. Famerée, Sacerdoce et eucharistie..., op. cit., 230.

[74] Ibid., 231.

[75] Ibid., 233.

[76] Ibid.

[77] CST 1.

[78] Cfr. J. Famerée, Sacerdoce et eucharistie..., op. cit., 246.

[79] Cfr. ibid., 245.

[80] N. Spezzati, Elementi di sintesi per una visione, in: Seminario Teologico SCJ, Carisma e devozioni: verso una identità dehoniana inculturata, Roma 2017, „Studia Dehoniana” 63, 199.

[81] „Gli elementi della chiamata si riuniscono immancabilmente per colui che cerca solo la volontà di Dio in una unità. Chi dà ad intendere di non trovare questa unità ha fatto difetto nel cercare, non volendo prendere su di sé la parte della rinuncia, che avrebbe condotto all’unità. In nessuna chiamata di Dio manca questa parte. Rinuncia è già un momento interno ad ogni dover scegliere, che indica sempre solo una strada e significa così rinunciare a tutte le altre egualmente possibili”. H. U. von Balthasar, Gli stati di vita…, op. cit., 401.

[82] Anteriormente, dice il numero: „Per Padre Dehon, a questa missione, in spirito di oblazione e di amore, appartiene l’adorazione eucaristica, come un autentico servizio della Chiesa (cf. NQ 1.3.1893), e il ministero dei piccoli e degli umili, degli operai e dei poveri (cf. Souvenirs, XV), per annunciare loro le imperscrutabili ricchezze del Cristo (cf. Ef 3,8)”.

[83] CST 17.

[84] Ibid.

[85] CST 6.

[86] CST 8.

[87] Cfr. G. Moioli, Scritti sul prete, op. cit., 205-206.

[88] Cfr. CST 17.

[89] Un carisma sacerdotale (nel senso segnalato) come il nostro diventa poi fonte che nutre anche la specificazione ministeriale che ogni dehoniano è chiamato ad assumere, sia come Padre che come Fratello; e a farlo in un Istituto che si identifica come „clericale”, elemento definitorio che non significa escludente.

[90] Ridotto talvolta ad una delle sue modalità di esercizio, cioè al ministero parrocchiale.

[91] Forse si può usare la formula „fatto vocazionale” („hecho vocacional”) adoperata da: G. Fernández, Los religiosos candidatos a los ministerios presbiteral y diaconal, „Commentarium pro Religiosis et Missionaris” 71 (1990), 534.

[92] F. Prado Ayuso, El ministerio ordenado de los religiosos y el magisterio postconciliar, „Claretianum ITVC”, 4(53) (2013), 291. Cfr. R. Zas Friz de Col, Il presbitero religioso nella Chiesa, Bologna 2010, 99.

[93] „Due vocazioni che confluiscono in uno stesso soggetto creando una realtà nuova”. F. Prado Ayuso, El ministerio ordenado..., op. cit., 291.

[94] Ibid., 294.

[95] „Il dono non annulla il carisma”. Ibid., 309.

[96] Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Direttive sulla formazione negli istituti religiosi Potissimum institutioni, Roma 1990.

[97] Cfr. G. Fernández, Los religiosos candidato..., op. cit., 538-539.

[98] N. Spezzati, Unità duale o dialettica permanente?, „Sequela Christi” 1 (2010), 10. Tutto questo numero della rivista è dedicato al nostro tema, in seguito anche al numero 2009/2 della stessa pubblicazione. Interessante anche il contributo di P. Martinelli, Vocazione e forme della vita cristiana: riflessioni sistematiche, Bologna 2018, 440.

[99] Cfr. N. Spezzati, Unità duale..., op. cit., p. 11.

[100] Cfr. L. M. Le Bot, Étude canonique sur l’appartenance du Pontife romain á un institut religieux, „Revue de Droit canonique” 2(65) (2015), 367-376; alla cui luce siamo anche del parere che sia più corretto usare ad esempio l’espressione „dehoniano vescovo” per i religiosi che ricevono l’ordinazione episcopale.

[101] H. U. von Balthasar, Gli stati di vita…, op. cit., 401-402.

[102] Ibid., 403.

[103] CST 25.